La mia gabbia: “Liquefatto” di Hilary Tiscione
Sì, pensa a un animale costretto a praticare la misura della gabbia. E pensa a noi che siamo bestie capaci di assegnarci gabbie strette come scatole cinesi della misura più fonda. Guarda che bestia sono io, dico.
Tu hai un essere dentro.
È la mia gabbia.
A Maddalena vengono regalati due biglietti andata e ritorno per Los Angeles. Glieli regala Romano, l’uomo con cui ha una relazione e che sistematicamente tradisce, lasciandosi trasportare dal flusso abitudinario di giornate tutte uguali.
Il romanzo d’esordio di Hilary Tiscione, pubblicato a giugno da Polidoro Editore, è un viaggio, metaforico e non. Partendo dalla tradizione del romanzo on the road, Tiscione porta la sua protagonista, un’apatica, annoiata donna italiana, negli Stati Uniti, in una California dai contorni grotteschi e sfumati.
Il motivo per cui Maddalena accetta di buon grado il viaggio regalato da Romano è la recente scoperta di una gravidanza, assolutamente indesiderata, che la porta per la prima volta a confrontarsi all’improvviso con sé stessa.
Negli Stati Uniti, distaccata dalla propria routine e dai luoghi che conosce, distante da ogni cosa, Maddalena non può far altro che ripiegarsi su di sé, rinunciando agli stordimenti a cui ricorreva quando ancora si trovava in Italia.
Liquefatto è un romanzo on the road, sì, ma in misura minore rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare: la struttura è quella, ci sono gli spostamenti, gli incontri, ma il viaggio della protagonista è soprattutto interiore. Maddalena viene presentata come una donna profondamente insoddisfatta, alla perenne ricerca di qualcosa, ma non viene specificato che cosa sia questo qualcosa. Tiscione intercetta con intelligenza diverse problematiche quanto mai attuali: la difficoltà di (ri)conoscersi, il desiderio di fuga, la voglia di vivere un’altra vita e la conseguente insoddisfazione della propria, l’incapacità di reagire di fronte agli imprevisti.
Anche i personaggi secondari sono in qualche modo strumentali, necessari a Maddalena per la sua ricerca di un senso. Non sono personaggi con i quali è facile entrare in sintonia, ma la forza del romanzo risiede anche nella capacità dell’autrice di restituire dei ritratti amarissimi, e non per questo meno affascinanti, di persone reali, sporche, esattamente per quello che sono.
Sono tornata a casa snervata. Bagnata di sudore. Romano era ancora in cucina con le scarpe di camoscio. Aveva due chiazze di un azzurro più scuro sotto le ascelle e la pelle del viso grigia come un vetro sporco. Ha bestemmiato. Poi si è seduto e ha tolto le scarpe con la lentezza particolare dei movimenti scorretti.
Siamo usciti a cena. Ho mangiato una minestra con le verdure a pezzi e le patate. Ho bevuto acqua frizzante. Sono rimasta zitta sentendomi in colpa perché stavo zitta.
L’atmosfera che si respira in Liquefatto è pesante, asfissiante, complice anche il ritmo serratissimo della narrazione, che molto ha in comune con il cinema. Sulla quarta di copertina si parla di violenza e, in effetti, non c’è una parola che possa adattarsi meglio al romanzo di Tiscione. Una violenza sbracata e non solo sottile passa quasi in sordina nella confusione dei pensieri di Maddalena, sempre più intricati; eppure c’è, permea la vicenda come una coltre scura.
Le pagine più intrise di questa violenza sono quelle in cui Maddalena si confronta con il suo nuovo stato, e con il «principio di profilo» che ha nel ventre. La narrazione della maternità è sempre, normalmente, unidirezionale e le donne che non provano il desiderio di diventare madri (o peggio, che non riescono ad accettare la propria gravidanza) vengono spesso ridotte al silenzio, da loro si prendono le distanze. Sono snaturate. Liquefatto mette in scena il punto di vista di una di queste donne, soffermandosi sul vilipendio che il feto opera all’interno del corpo della protagonista.
Tiscione riserva grande attenzione alla descrizione del rapporto di Maddalena con il proprio corpo e con il corpo delle altre donne, tornandoci a varie riprese nel corso della narrazione:
Mi sento a disagio a restare dentro il bagno quando una donna si lava. È inevitabile – e lo è, lo è per tutte – che l’occhio perda l’equilibrio sul seno di una donna. Sulla sua fica. Per sapere quanto la sua fica è diversa dalla tua. Se ha le spine. Se non le ha. Se le ha radunate al centro. Se sono assorte. Affaticate. Se è incomprensibile come un rituale. Se è leggibile. Se è discreta. Se è sfrontata.
Sul corpo delle donne sono state fatte, da sempre, continue pressioni, perché le donne devono diventare madri, devono essere magre, ma anche in forma, morbide, accoglienti, perfette. E non che in letteratura non ci siano esempi di quanto questi standard siano deleteri, perché ci sono, ma Liquefatto si distingue comunque – nel panorama italiano – per la sfrontata onestà con la quale Tiscione racconta della progressiva crisi interiore di una donna che non sa cosa farsene del proprio corpo, ora che non è più soltanto suo.
Con un linguaggio schietto, essenziale, intessuto di echi e rimandi, quasi un’interminabile preghiera, Liquefatto si tira e si allunga, tutto rivolto verso un epilogo che dopo una climax durata quasi un’eternità smorza la tensione di getto, senza però mettere un punto definitivo.