“La narrazione è il bancone del supermercato”
frammenti di testi letterari contemporanei a confronto
A pianterreno, farmacie vicino vino e liquori uffici bancari caffè librerie, e in fondo edicole e fiorai ambulanti, oppure grandi sbarramenti di cancelli inferriate cantonate marmoree ringhiere colonne respingenti, più avanti case condominiali larghe e basse o all’improvviso strette e altissime, di colori diversi, ma tutti allo stesso modo bagnati muffiti e sobbolliti. Meno negozi, ma qualche emporio e supermarket […] Le case basse di puttane venditori ambulanti ladri di garzoni maschere di cinema trasportatori fattorini vigilantes studenti apprendisti ballerini travestiti indossatori restauratori fotografi piazzisti venditori di enciclopedie confidenti della polizia.
Lo sfondo è quello di un anonimo paesaggio periferico: cemento, calce e rimasugli d’erba incolta che spuntano coraggiosi tra le buche sparse dell’asfalto dissestato.
È il 1989 quando Paolo Volponi (1924-1994) nelle Mosche del capitale dipinge alla maniera espressionista i tratti della società industriale e di chi la popola. C’è sì la complicata gerarchia imprenditoriale, ma l’autore non risparmia le grigie atmosfere periferiche.
L’io narrante ne rimane frastornato, viene sommerso dalla realtà circostante, più che una persona, si riduce a cinepresa:
I camorristi sono tutti tubercolosi di prigione e sale da biliardo e alcolizzati di aperitivi […] I vecchi bovinesi gli casca la pelle dalla faccia e gli si scollano le gambe come sedie dentro l’acqua […] Una prostituta di qui è stata trucidata a martellate. L’ho saputo perché me lo hanno fatto leggere in fabbrica. Un pregiudicato ha tirato sei colpi di revolver contro la convivente, credendo di averla uccisa si è buttato dalla finestra […] Un dirigente è stato trovato morto sotto la doccia aperta. Due visitatori negri della nostra azienda, ospitati lì dentro, si sono presentati nudi un venerdì sera sulla porta di vetro del centralino dove stanno la telefonista e la portiera.
«Non c’è niente da raccontare. Non si racconta più… Non c’è più Madame Bovary… Il racconto è finito. La narrazione» – scrive Volponi – «… è il bancone del supermercato».
Facciamo però un passo indietro, torniamo ai primi del ‘900, al 1925 per la precisione, quando Palazzeschi (1885-1974) pubblica la sua raccolta poetica Poesie. In una poesia, La passeggiata, l’autore anziché cantare la classica sfumatura che solo il Poeta può cogliere da una semplice passeggiata, realizza più una “lista della spesa” ché una poesia:
Grandi tumulti a Montecitorio.
Il presidente pronunciò fiere parole,
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
Il gran sultano di Turchia aspetta.
La pasticca del Re Sole.
Si getta dalla finestra per amore.
Insuperabile sapone alla violetta
Orologeria di precisione.
[…]
Corso Napoleone Bonaparte.
Cartoleria del progresso.
Si cercano abili lavoranti sarte.
Anemia!
Fallimento!
Ribassi del 90%
libero ingresso.
Hotel Risorgimento
E d’Ungheria.
Anche qui lo schema è lo stesso, il protagonista della poesia è ridotto a cinepresa, viene eclissato dal caos che lo attornia e registra la realtà senza selezione alcuna. Al pari di Volponi, Palazzeschi realizza un prodotto letterario i cui confini, decretati dalle voci popolane, dalle notizie dei giornali e dalle insegne pubblicitarie, sono labili fra loro. Sembrano condensarsi, proprio come avviene nei sogni. Il poeta sopracitato ha anticipato così una serie di questioni che poi, a distanza di cinquant’anni, verranno riprese e continueranno a essere moderne.
Lo scrittore marchigiano, rispetto a Palazzeschi, nel suo romanzo, fa un uso anomalo della punteggiatura, laddove sarebbe necessaria una virgola, decide di non metterla. Così avverrà per il punto e virgola, per il punto fermo e per i due punti. Non è affatto casuale una scelta simile: contribuisce a dipingere una realtà che aliena costantemente l’essere umano. Ecco perché l’affinità con Palazzeschi. La passeggiata è un affresco realistico della neonata società di massa che in Volponi è ormai matura e si appresta a entrare in nuova «era di trasformazione […] di confusione, di cedimenti individuali e di intercambiabilità e precarietà dell’opera».
Il postmoderno, alla luce di quanto detto, ha ucciso definitivamente l’arte e la poesia?
Eugenio Montale (1896-1981), al momento del conferimento del premio nobel per la letteratura (12 dicembre 1975), tenne un discorso tutto incentrato sulla poesia, sul suo valore accompagnato però dal Leitmotiv “è ancora possibile la poesia?”
È sicuramente difficile rispondere a una domanda simile, immaginiamo però che una risposta ci sia e come tale propongo una poesia di Edoardo Sanguineti (1934-2010) tratta dalla raccolta poetica Postarken del 1978:
La poesia è ancora praticabile, probabilmente: io me la pratico, lo vedi,
in ogni caso, praticamente così:
con questa poesia molto quotidiana (e molto
da quotidiano, proprio): e questa poesia molto giornaliera (e molto giornalistica,
anche, se vuoi) è più chiara, poi, di quell’articolo di Fortini che chiacchiera
della chiarezza degli articoli dei giornali, se hai visto il “Corriere” dell’11,
lunedì, e che ha per titolo, appunto, “perché è difficile scrivere chiaro” (e che
dice persino, ahimé, che la chiarezza è come la verginità e la gioventù): (e che
bisogna perderle, pare, per trovarle): (e che io dico, guarda, che è molto meglio
perderle che trovarle, in fondo):
perché io sogno di sprofondarmi a testa prima,
ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi, che ho perduto tutto, o quasi): (e
questo significa, credo, nel profondo, che io sogno di morire,
questa volta, lo sai):
oggi il mio stile è non aver stile: