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pubblicato 4 anni fa in Recensioni

La potenza di un esordio: “Febbre” di Jonathan Bazzi

La potenza di un esordio: “Febbre” di Jonathan Bazzi

In un Paese in cui si pubblicano tanti libri e i lettori forti sono molto pochi, è raro che un esordio possa essere potente a tal punto da diventare celebre o, se di celebrità non si vuole parlare, capace di creare un dibattito riguardo a ciò di cui si fa portatore attorno a sé. Eppure ogni tanto capita. E Febbre di Jonathan Bazzi è diventato tutto questo: celebre e chiacchierato, e del resto anche molto apprezzato. E tutto questo ben prima di entrare a far parte della cinquina (che quest’anno è una sestina) dei candidati al Premio Strega 2020, cosa che, indubbiamente, da quel momento in poi ha solo potuto accrescere la sua fortuna.

All’inizio di una buona recensione, sarebbe opportuno tracciare per sommi capi la trama del libro che si sta presentando, oltre che dichiararne i temi principali. Ma si è parlato talmente tanto del tema della sieropositività legato al nome di Bazzi che vorrei soffermarmi su altro. Ciò di cui spesso non si parla, però, come se risultasse ai più una trama di serie B, è della decisione dell’autore di dare al romanzo una struttura doppia, che permette di affrontare in maniera approfondita una parte di storia personale completamente diversa e temporalmente antecedente. Centrale è infatti anche il racconto dell’infanzia e adolescenza del protagonista nella periferia milanese, a Rozzano, nel “Bronx del sud”.

Ci si può chiedere perché questo romanzo, a cui del resto l’etichetta di romanzo sta così stretta, considerata l’intersezione notevole dell’intreccio con la storia personale dell’autore, abbia ottenuto così tanto successo di pubblico e di critica. Una risposta univoca a questa domanda non esiste. Ma sicuramente il lettore è ammaliato dal modo di scrivere dell’autore: ammaliato nel vero senso della parola, perché è una scrittura che quasi non si avverte. Scivola via con velocità, con estrema semplicità, forse per un tentativo di imitare lo scorrere dei pensieri del narratore.

Lo stile, quindi, è molto semplice e immediato: talvolta per i numerosi a capo sembra quasi procedere a singhiozzi. Questi sono funzionali ad enfatizzare determinati punti della storia: principalmente zone di riflessione in itinere del narratore. Diventa chiara la volontà autoriale di generare pathos, di farsi largo piano piano nel centro dell’emotività del lettore. A conquistarlo aiuta poi, sicuramente, anche l’incedere delle immagini metaforiche con cui la narrazione è fittamente arricchita.

E, a mente fredda, la scelta di uno stile immediato, nel senso proprio di non necessitare particolari mediazioni o raffinati strumenti di decodifica, sembra essere la scelta più sapiente e più funzionale. Perché è chiaro il fatto che Jonathan Bazzi voglia comunicare qualcosa di forte, di potente, e che voglia farlo arrivare a quante più persone possibile. L’unico modo per parlare di temi “pesanti” senza far partire prevenuto una larga parte di fruitori dell’oggetto libro, è parlarne con semplicità e (almeno apparente) leggerezza.

La malattia fa più paura finché rimane distante: quando ti arriva addosso, tutto diventa più facile.

Il terrore e il panico stanno nello spazio che precede incontri e collisioni.

Sono privilegi riservati ai sani.

La tematica della malattia non viene mai affrontata con atteggiamento vittimistico. I sacrosanti momenti di sconforto e di paranoia non sovrastano mai il vero cuore della narrazione. Tutt’altro: quella a cui ci si trova di fronte è una forte rivendicazione di identità. Se gli altri godono della propria etichetta di “sano”, Jonathan gode della propria sieropositività come definizione. La malattia lo definisce, lo descrive, non in maniera peggiore di altre, alla fine.

Non so chi sono, non l’ho mai saputo. Per tutta la vita, finora, ho cercato senza sosta di diventare qualcosa, assumere una forma, incarnarmi […]. Tutte le identità che ho provato ad assumere prima o poi hanno ceduto. Le ho negate, superate, svilite, sono passato in fretta ad altro. Neanche qui, neanche questo – deve essere qualcosa di nuovo.

Ora sono stato accontentato.

Anch’io ho una qualità stabile da esibire al mondo. Di cui non posso sbarazzarmi.

[…] HIV, sieropositivo: un’identità decisa dal corpo, la posso riconoscere e accettare, negare o dimenticare, ma lei resta com’è, tale e quale.

E d’altra parte, aggiunge: “il virus in realtà non dice niente di me, non dice niente di chi ce l’ha.

È vero, il virus non definisce Jonathan Bazzi, ma dall’impostazione data dal romanzo si evince chiaramente che la diagnosi segna un punto di svolta nella sua vita. L’infanzia difficile e l’adolescenza tormentata non si sono automaticamente dileguate, ma rappresentano un percorso, il cui punto di arrivo è proprio quello descritto con l’acquisizione della consapevolezza di sieropositività.

Ho Rozzano incastrata nel nome, se parlo di me devo parlare di lei.

Me ne sono andato, ma è ancora tutta qui.

Rinnegare la propria provenienza non può essere davvero una soluzione. Quindi, è come se Jonathan Bazzi stesse sussurrando all’orecchio del proprio lettore, a libro chiuso e ultimato, di non cercare di essere qualcuno che non si è. Bisogna trascinarsi dietro la propria condizione di ultimo senza cercare di nasconderla, anzi, mettendola al centro della piazza, in bella vista, pronta per essere osservata da tutti.

Ma, alla fine dei conti, Febbre non è un libro sull’HIV, né sull’emarginazione e sulla povertà delle periferie. Non è stato scritto per esternare un bisogno incontenibile di fare la morale agli altri, di ergersi al di sopra di tutti con la pretenziosa pretesa di avere qualcosa da insegnare (eppure è palese che l’autore, per quanto giovane, abbia qualcosa da insegnarci).

Febbre non è pretenzioso, anzi, viceversa è il mondo a trattare con sufficienza i sieropositivi: a etichettarli automaticamente come sessualmente promiscui, poco attenti, facendo sì che essi debbano sopportare su di loro il peso di una colpa ancestrale, caricatasi sempre di più a sua volta dello stigma sociale andatosi via via, nel corso della sua esistenza, ad autoalimentare. Si unisca allora la sufficienza alla paura, paura di essere i prossimi, e al privilegio che si prova a stare dalla parte giusta della barricata, quella dei sani.

Me lo chiederanno tutti, difficile che si trattengano: hai pensato a chi può essere stato? La gente cerca di proteggersi, cerca di capire dove ho sbagliato io per non fare lo stesso.

Ma io non lo so.

Pensavo di essermi difeso a sufficienza.

Febbre è un libro che parla dell’essere ultimi, ma in maniera differente da come ci si aspetterebbe. La scrittrice Teresa Ciabatti, nel proporlo come candidato per il Premio Strega, ha affermato che questa storia «esula dai giudizi e sposta il baricentro sull’accettazione delle fragilità»: e in effetti il punto focale per ben interpretare il romanzo è proprio questo.

Jonathan è un esponente di una serie di caratteristiche che la società ha deciso essere sbagliate e punibili, a cui ha deciso di far venire a mancare lo statuto di legittimità: balbetta, è gay, è nato e cresciuto in periferia, è sieropositivo. Ed effettivamente diversi punti nel romanzo dimostrano le difficoltà che è costretto ad affrontare chi non è conforme e uniforme ai canoni. Ma la realtà è che «il protagonista, creatura in divenire, non cerca un’identità, o almeno non nelle categorie esistenti, ma ne inventa una sua personale», come continua Ciabatti.

Jonathan Bazzi è chiunque voglia essere. La potenza di Febbre equivale alla forza del coraggio necessaria a decidere di seguire il proprio tracciato di vita, senza condizionamenti di nessun tipo.

di Antonella D’Agnano