Niccolò Fallani
pubblicato 1 settimana fa in Interviste \ Recensioni

“La strana guerra” di Paolo Rossi – una recensione e qualche domanda all’autore

“La strana guerra” di Paolo Rossi – una recensione e qualche domanda all’autore

La strana guerra è un’opera di Paolo Rossi, pubblicata nel 2024 da People. Non è facile dire di preciso cosa sia questo testo perché, sebbene sia evidente la verità storica di molti dei fatti raccontati all’interno, allo stesso tempo il narratore è una persona che non li ha vissuti, ma ha conosciuto e ricostruito il mosaico della Storia attraverso memorie disparate, letture di biografie e articoli evocativi di ricorrenze locali, documenti celati fra gli archivi universitari e, non da ultimo, ricordi di storie udite da ragazzo dalla viva voce dei protagonisti o dai loro parenti. Il testo in questione è un romanzo storico, ma non è del tutto vero, perché l’acribia filologica dell’autore rispecchia un’idea di letteratura non finzionale, anche e soprattutto considerando che Paolo Rossi è un fisico teorico e, come tale, predilige il dato all’invenzione, sebbene questi elementi si mischino in una, e forse mi sbilancio con una definizione labile, narrazione documentaria.

Nella Strana Guerra si dipinge uno spaccato delle microstorie che compongono la Storia dell’ultimo biennio della guerra in Italia fino alla Liberazione, svelandone particolari insoliti, spesso tristi, e l’obiettivo dichiarato del volume è quello di restituire al lettore l’importanza della memoria, affinché non si dimentichino la crudeltà del fascismo, il cinismo dei partigiani, la sofferenza di un Paese devastato e ingannato, come sempre, dai potenti. Al centro ci sono vicende disparate, collocate fra Pisa, Bologna e molte altre città italiane: il libro, del resto, si apre con l’uccisione della famiglia Allegretti, di cui fanno parte Mario, fisico dalla spiccata vena politica, e Lamberto, il quale essendo stato richiamato in marina si salva e le cui imprese saranno trattate nel resto dell’opera. Questa famiglia è presentata inizialmente come aliena, seppur cosciente, dalla storia: Mario apre il volume ammirando le cicale sulla china di un colle brullo e ripensando a Carducci e alla sua poesia tellurica, certo, ma anche al fatto che la guerra perdurava da quattro anni

a luglio la Sicilia invasa dai nemici e dopo pochi giorni il Duce tradito dai suoi stessi amici, imprigionato, liberato dai tedeschi, portato al Nord. Pisa bombardata il 31 agosto: migliaia di morti, un intero quartiere distrutto, il liceo sventrato, le lezioni a San Giuliano e a calci con i ragazzi sfollati.  E poi la resa e tedeschi dappertutto, ma incattiviti dal tradimento e ancor di più da quei ragazzi che non si volevano arruolare, che scappavano in montagna, che li attaccavano all’improvviso. E ancora, bombe e paura quotidiana.

Mario Allegretti è fascista e ripercorre il nastro della Storia tenendolo al contrario, valutando ciò che è giusto come sbagliato, ciò che è salvezza come fine di un’utopia, ma questo non gli impedisce di morire in una situazione sporca e delirante. Italo Filippelli, colono che era stato licenziato dal servizio al ‘gineceo’ degli Allegretti, infatti, si sentiva offeso dal modo in cui era stato trattato, lui che era compaesano, lui che erano anche un po’ invecchiato, e decide di sfruttare la conoscenza maturata con due sconosciuti, cinti da un’uniforme tedesca, che perpetravano la propria esistenza nascosti nei boschi: disertori polacchi che si erano dati alla macchia pur di non morire per il Reich, e Italo non poteva certo giudicarli per questo. Italo, iracondo per il fatto di essere stato allontanato in malo modo da quella che sembra ricalcare la ‘zona d’interesse’ descritta da Amis, assolda questa strana coppia (a cui poi si aggiungeranno un disertore tedesco e un contadino inviso ai padroni) e suggerisce loro di depredare quella casa, ma di farlo con un fazzoletto rosso che nasconda loro il viso, in modo tale che le responsabilità del fatto ricadano sui partigiani nascosti fra le colline.

Tutti sanno che l’Allegretti è un gran fascista, e se vi mascherate da partigiani la colpa se la prenderanno loro e nessuno vi verrà a cercare. Poi tornate da me con il bottino e io troverò il modo di vendere gli ori lontano da Pescia. Poi con i soldi ci comperiamo tutti da mangiare e da bere e dovremmo averne abbastanza per un bel po’.

Il piano non è difficile da attuare, alla fine le finestre erano aperte, le donne di servizio distratte, ma i tre uomini che accettano l’incarico irrompono bruscamente e, al «non siete italiani!» urlato dalla disperata Elena, nuora di Mario, i tre si sentono in trappola e sparano, uccidendo tutte le persone nella stanza. Di qui, l’autore racconta con vigore descrittivo la reazione dei tedeschi, le colpe addossate ai partigiani, le reazioni del paese. La guerra, come recitò Einstein, «non si può umanizzare, si può solo abolire» ed è chiaro, dal modo in cui si conducono questa e altre decine di storie nella Strana Guerra, che l’autore denuncia la violenza e, con indole pacifista, cerca il bello anche nell’orrido, come il volto dell’unica superstite della strage, la piccola della famiglia, ignorata dagli occhi dei disertori e della Storia.

Il secondo capitolo, intitolato Trionfo della morte (luglio-settembre 1944), giustappone la possibilità che Piazza dei Miracoli fosse distrutta alla meravigliosa opera di Buffalmacco. Il fronte passava per Pisa e, con dovizia di particolari, l’autore racconta che «se i tedeschi fossero stati in cima alla Torre, avrebbe dovuto comunicare via radio la frase “This is Able George One. Fire” e subito le navi alleate avrebbero abbattuto il presidio nemico, e quindi la piazza, in barba al rispetto dovuto in guerra agli edifici religiosi e ai patrimoni culturali. Weckstein era il nome dell’uomo incaricato di guardare con il cannocchiale e decidere le sorti della Torre, ma poi i tedeschi arrivarono davvero e si dovette combattere e addirittura dar fuoco alle antiche capriate di legno presenti nel Camposanto monumentale, causando così lo scioglimento delle lastre di piombo e danneggiando irreparabilmente i marmi, le lastre tombali, gli affreschi, sebbene si salvò, intonso, il Trionfo della Morte, capolavoro «il cui nome meglio di ogni altro poteva descrivere lo scempio».

L’autore, nel corso della narrazione si lascia andare non di rado al vigore descrittivo e fa anche ricorso al sintagma alternato, che comporta spesso un’accelerazione narrativa. Fra le pagine si alternano narrazione e dato e il risultato è un racconto, a volte dispersivo, dove però prevalgono l’umanità e il sentimento antifascista, perché talvolta ci dimentichiamo i danni irreparabili che Mussolini (o Bucio, come scrisse Gadda) ha fatto al nostro Paese, alla nostra humanitas. Nel proseguire della narrazione convince anche l’impiego del dialetto, mai forzato, prevalentemente pisano: «S’accompagnarono l’ameriani noi fino a Ripafratta, poi a Ripafratta si girò e s’andò diretti a Pisa, a Pisa s’andò a Piazza del Duomo e ameriani un ce n’era punti. S’arrivò prima noi e poi arrivorno l’ameriani. A Pisa un erano ancora entrati», che rende più veri i personaggi e i loro sentimenti, come anche risultano interessanti le pagine in cui il narratore si mette da parte privilegiando la finzionalità della mente e mostrando i processi elucubrativi dei personaggi, come Lamberto Allegretti che, assegnato dai comandati della Decima Mas a Milano, richiama alla mente la poesia, i primi anni pisani, le imprese del giovane Fermi e le vicissitudini fra l’Università, Pucciantini Giovannino Gentile (figlio del filosofo) e quella sua generazione, i nati nel 1906, che sarebbe passata alla storia.

L’autore, cresciuto sotto l’ala del pensiero di questi maestri, si lascia affabulare dalle notizie trovate in archivio fa emergere il sé più fanciullesco, che si mette nei panni dei grandi del passato, diventando un narratore d’esperienza e lasciando da parte la prosa saggistica. Nella nota iniziale, “Una premessa”, Rossi scrive questo:

Questo non è un romanzo. È un insieme di storie vere o molto verosimili, legate tra loro da un assai tenue filo conduttore: le vicende della famiglia Allegretti e il loro intrecciarsi quasi casuale con vari episodi e personaggi della Resistenza […] Quanto ai protagonisti degli avvenimenti narrati in questo libro, l’autore da un lato si è concesso il lusso di immaginare pensieri e ricostruire dialoghi, ma dall’altro ha cercato di evitare di attribuire loro azioni storicamente false o comunque implausibili. Il narratore chiede pertanto venia agli storici e ai letterati, conscio di non aver reso un buon servizio né agli uni né agli altri, ma con la remota speranza che anche la ricostruzione meno scrupolosa, anche la testimonianza meno attendibile, siano più utili della totale perdita della memoria per coloro che verranno».

L’autore, insomma, ha come obiettivo il ricordo, perché unisce il ruolo del testimone, per definizione parziale, a quello dello storico amatoriale, sempre mantenendo il metodo scientifico che fa parte della sua formazione, e il risultato è una narrazione precisa, oculata e anche curiosa, perché i personaggi trattati sono poco conosciuti e, dalla Storia, c’è solo da imparare.


Paolo, non deve essere stato facile scrivere un testo che si basa sulla memoria personale, biografie lette (quasi) per caso e documenti ritrovati incidentalmente nel corso di ricerche accademiche di Storia della fisica. Se è chiaro qual è lo scopo, come è nata l’idea di scrivere La strana guerra?

Credo che le varie trame siano confluite quasi per caso nella memoria, e solo nel corso della scrittura si sono articolate in un percorso narrativo. Come ben descrive Umberto Eco nelle “Postille al Nome della Rosa”, spesso quando si scrive una storia i personaggi dopo un poco iniziano a vivere di vita propria, e a chi scrive non resta che accompagnarli nel loro cammino. Ovviamente il punto di partenza è stato la storia degli Allegretti, che avevo studiato a lungo; il resto si è aggiunto cammin facendo.

Un bilancio, ritornando ai giorni nostri: credi che oggi si sia persa la memoria di ciò che è stata la guerra?

La memoria della guerra è purtroppo largamente persa, per la scomparsa dei testimoni diretti e la scarsa capacità di uscire da una logica puramente celebrativa anche da parte di chi avrebbe desiderato mantenere viva quella memoria. Credo sarebbe importante ricordare che anche la Guerra e la Resistenza sono state vissute da persone come noi, con i loro piccoli e grandi drammi e la loro “quotidianità”, e che capire loro ci potrebbe aiutare a capire noi stessi: in questo le microstorie possono essere di grande aiuto.

È interessante il modo in cui si intrecciano nel testo vicende di personaggi che sembrano, apparentemente, non avere nulla a che fare fra loro. Perché mettere al centro del racconto vicende meno note? E come hai fatto a collegare i punti di quel disegno che è la Storia nelle storie?

Come accennavo in precedenza, i collegamenti in molti casi sono emersi quasi per caso. Il passaggio di Marceglia a Pescia, cruciale per collegare più strettamente la sua vicenda a quella di Lamberto Allegretti, era già documentato nella relazione che avevo scritto in precedenza, ma mi era sfuggito fin quando non è diventato narrativamente necessario. Lo stesso dicasi per il ruolo di Pancini, il partigiano Achille, o per il collegamento tra Allegretti e i Pontecorvo. Stabilire le relazioni con la Storia generale è stato più facile, perché tutte le vicende narrate ne facevano già comunque parte, erano soltanto passate inosservate (o tenute nascoste, come nel caso del PLAN IVY).

Sebbene la tua formazione sia scientifica, spesso ti lasci andare nel testo a richiami al mondo classico e/o letterario, vedasi la citazione di Erodoto nella premessa ma anche a Carducci e altri autori nel corso del testo. Perché un fisico dovrebbe appassionarsi alla storia e alla letteratura? E come coadiuvi le due istanze, nella vita così come nella scrittura?

La mia formazione liceale è classica, la stria è sempre stata una mia passione fin dall’infanzia. Non ho mai avvertito una cesura tra lo studio della fisica e le discipline “umanistiche”, e credo questa divaricazione che sia in parte un effetto della sempre maggior specializzazione negli studi e in parte il residuo di un certo pregiudizio culturale presente nel nostro Paese da almeno un secolo per effetto di certa cattiva filosofia.