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pubblicato 2 settimane fa in Interviste \ Recensioni

“Le favole nuove” di Livio Santoro

la parola come palingenesi

“Le favole nuove” di Livio Santoro

Sono lingue sconosciute di lava che mi parlano mentre si ergono ed espandono piane, mentre avanzano di basalto e pietra. […] E crescono fino a farsi orizzonte. Ricadono fino a farsi terra.

Le parole sono raggio di fuoco tra figure di pietra. Sono fatica di emersione e ferita di schianto. Sono il giro del sole mentre intorno svaniscono margini e istanti, il brusìo e il silenzio, le attese e le fughe. Le parole sono orizzonte e terra, sanno farsi segno e sanno farsi sogno ne Le favole nuove, raccolta di racconti di Livio Santoro pubblicata di recente da Edicola Ediciones per la collana “Lo Stivale”, a chiusura di una trilogia avviata da Piccole apocalissi (2020) e Commedie del vespero e della notte (2022).

Questi racconti si inseriscono nella corrente della microfinzione, vale a dire della narrazione brevissima, già nota al mondo classico nella forma epigrammatica, e ora affermatasi particolarmente nella letteratura ispano-americana.

Dall’epigramma il microracconto mutua soprattutto l’arguzia, la chiusa fulminea, l’ellissi di parole in cui mappe invisibili prendono forma, a ogni lettura diverse e specifiche per ogni lettore. Di peculiare la microfinzione esibisce la predilezione frequente per lo spazio invisibile dell’immaginario. È lì che il narratore lancia lo sguardo verso «l’unico modo possibile di concepire la felicità», come definì il fantastico Tommaso Landolfi, uno dei grandi modelli di Santoro.

L’adesione dei toni alle molteplici esperienze del vivere o dell’immaginare, proprio per la brevità dei testi, gioca un ruolo fondamentale nella microfinzione. Ma nelle raccolte di questo scrittore la parola si presenta sia come elemento espressivo sia quale evidenza di mondi sospesi. Si fa protagonista letteraria e metaletteraria.

Il registro, difatti, si anima di scelte lessicali espressionistiche e illustri, con costanti neologismi, latinismi, arcaismi, esaltati dalla variazione di suoni cupi nell’incipit dei testi e piani nella loro chiusa, e dalla tessitura sintattica sofisticata. Una prosa, quella di Santoro, che con l’elevatezza dello stile sa filtrare l’asprezza delle realtà che racconta. Proprio questa è la cifra che si vuole sottolineare all’interno delle sue tre raccolte. Contengono esistenze ordinarie, eterne, deformate, ma è sempre la parola protagonista entro quel contorno sospeso da cui emergono gli altri comprimari dei racconti. Parola come medium e come soggetto della narrazione. Parola come favola, scandita dal ritmo ora di vita, ora di morte, ora di rigenerazione, nella ciclicità dei tre libri dello scrittore.

È favola di vita all’interno di Piccole apocalissi, laddove il buio cieco delle storie di un tempo, quello di Cenerentola rincorsa dalla mezzanotte e di Cappuccetto tra i sibili del bosco, si trasforma nella sorpresa di un’alba irriverente e impavida per entrambe le protagoniste. Lupi e matrigne esclusi, grumi di paura dissolti.

È favola di morte in Commedie del vespero e della notte, in cui il “c’era una volta” prevede stelle spente e confini di pietra, in un mondo al cui centro siamo destinati, ma non signori di virtù senza limiti, piuttosto di limiti senza virtù.

Ancora nelle Commedie è favola di un torrente che modula, tra le strofe ripetute dalle selva, una lingua muta agli uomini dalla semantica inconsueta e, però, fatta di sospensioni colme di fantasie.

Dovrai almeno fingere di aver trovato qualcosa, sorridere, felicitarti con te e con il destino […]. Oppure, profondendo di certo meno sforzo, dovrai farti bastare un qualsiasi ciottolo levigato dalla corrente che avrai raccolto sulla riva del fiume.

Proprio da questo suggerimento di inventarsi mondi anche laddove una pietra misura la disperazione dell’uomo e della sua parola, nascono Le favole nuove, racconti di palingenesi nell’identità di vita e morte, di ascese e di tremori.

Per favore, Lèmina, non mi raccontare quelle vecchie, raccontami piuttosto le favole nuove.

Partono da questa richiesta gli ultimi racconti di Livio Santoro, dal volto di una belva negli occhi di Lèmina, da un incontro insolito in nessun luogo e nessun tempo, come sempre in queste storie, dalla carne ferita dell’animale e rimarginata dalla stessa protagonista nello spazio di un racconto. In uno spazio che sappia sospendere il dolore con la costanza di un canto sottovoce.

Suonano di miti rinnovati, queste favole, come quella di Brali e Arnali, novelli Deucalione e Pirra della mitologia greca, ma progenitori di esseri umani e animali, non di soli uomini e donne come nella tradizione antica. Miti rinnovati nel frutto di un melo, conteso dalla bellezza di tre donne, Pondili, Trosti e Marandi, ma poi assegnato alla terra perché ne nasca un altro albero di fiori e colori, un coro di danze nel cerchio delle sue radici, e non una guerra già vista di linguaggi e corpi contrapposti. Sono favole nuove perché al giudice implacabile degli umani peccati, il Minotauro di dantesca memoria, si sostituisce Serina, essere altrettanto spietato, ma vendicato in un inferno capovolto, dove i peccatori si fanno corpo unico, riemergono dal fangoso buio e, redivivi tra vivi, condannano al commiato meritato il loro stesso esecutore. Sono, in ultimo, racconti di riscatto come quello della Lathraea, il cui nome ne definisce la natura di fiore timido di luce e assente di clorofilla, la cui incerta esistenza nei prati si accorda a quella di organismi più forti, per fiorire dalla morte in una favola nuova.

E in questo mondo di parole rinnovate abbiamo chiesto allo stesso autore di introdurci, rivolgendogli qualche domanda.


Italo Calvino nelle Lezioni americane, in relazione alla ‘Visibilità’, esprimeva i suoi timori circa la minaccia subìta dalla fantasia nel bombardamento di immagini attuale. Come è possibile, a fronte della tua esperienza, preservare mondi immaginari dalla ‘civiltà dell’immagine’?

Il timore era giustificato allora e lo è adesso, e adesso sappiamo più di prima quanto il continuo bombardamento di immagini di cui parla Calvino incida negativamente sulle nostre capacità di attenzione e su quelle cognitive, soprattutto in ragione degli strumenti con cui oggi fruiamo di un simile bombardamento. Però, alla prova dei fatti, a quasi quarant’anni dalle Lezioni di Calvino, non mi sembra che la nostra capacità immaginativa sia esaurita o peggiorata. Forse i mondi immaginari esistono spontaneamente, e si difendono da sé.

La narrazione breve nasce nel mondo classico, sotto forma di epigramma, e in tempi di crisi della libertà. Oggi è particolarmente apprezzata nell’America ispanica, i cui sistemi politici sono fortemente in bilico tra dittature radicate e democrazie fragili. È possibile azzardare l’ipotesi che la microfinzione sia una letteratura di protesta? Se sì, a quale domanda storica rispondono i tuoi racconti?

Che la narrazione brevissima possa assumere anche (talvolta, e non necessariamente) una funzione politica, di protesta, è un’affermazione che mi sento di condividere. Questo proprio in ragione di una delle sue dimensioni costitutive, ovvero la dimensione ellittica, per la quale si lascia fuori dal narrato ciò che non si può dire, determinando un vuoto sul quale interrogarsi: è quel vuoto il centro di tutto, ciò che in sostanza regge la narrazione. Per quanto riguarda i miei racconti, il portato politico risiede in una certa ritrosia a considerare l’umano, e solo l’umano con la sua intenzionalità, quale motore della narrazione, dunque delle cose del mondo. Anche per questo (come tanti) sono un sostenitore inveterato del fantastico, da una parte, e dell’innovazione linguistica, dall’altra. Mi piace protestare contro la letteratura comprensibile dell’io, della lingua di tutti i giorni, della famiglia, dei patimenti soggettivi, delle vicende con cui identificarsi in quanto queruli lettori: credo che ormai abbiamo bisogno di altre storie e di altri modi di raccontarle, credo che sia necessario lasciarci alle spalle quel pervasivo eccezionalismo/vittimismo borghese che negli ultimi centocinquant’anni ci ha fatto sentire tanto importanti portandoci alternativamente all’esaltazione e al lamento.

In Commedie del vespero e della notte si parla di «ruolo fondativo del dolore». Non a caso si scivola spesso in precipizi senza ascesa. Viceversa, Le favole nuove manifestano più volte forme di sopravvivenza ostinata e instancabile. Che ruolo gioca l’ironia in questo passaggio di prospettiva?

L’ironia ha un ruolo fondamentale in entrambe le raccolte, proprio perché contribuisce a darmi la possibilità di evadere dalla querulomania vittimista a cui ho appena fatto cenno, o almeno così credo. In fin dei conti, il ‘ruolo fondativo del dolore’ non viene mai preso sul serio dai vari narratori che si avvicendano, o meglio: viene preso sul serio ma viene rigirato parodisticamente, come a dire che se questo dolore deve per forza esserci, che almeno si provi a trarne qualcosa di costruttivo o si provi a riderne; si tratta però di un dolore più collettivo che individuale, un dolore di specie, se vogliamo, che genera tentativi sempre più efficaci (si spera) di risposta. Infatti se nelle ‘Commedie’ tale procedura è ancora potenziale, e porta soprattutto allo spaesamento perché in buona parte lì ci si fa ancora soggiogare dal dolore stesso, nelle ‘Favole’ matura in una consapevolezza nuova, in un’interiorizzazione plurale del dolore che è accettazione spensierata della morte. Una morte che però è rinnovamento, metamorfosi, possibilità e necessità di nuova genesi: anche in questo caso, il passaggio dall’io (di specie) al noi (interspecie) è fondamentale, perché la morte dell’io non è la morte del noi (quando ovviamente questo noi non sia una semplice sommatoria di diversi io di specie separati tra loro). Posso dire che uno dei percorsi che ho provato a tracciare nei miei libri riguarda proprio le modalità di rapportarsi al dolore e di superarlo.

In tutte e tre le tue raccolte, ma in particolare nelle ultime due, è evidente l’armonia della forma rispetto al conflitto che anima ciascun intreccio. Si tratta di un appassionato gioco letterario o lo sforzo pugnace della parola di suggerire pure un qualche ordine alla materia narrata?

Il gusto per il gioco c’è sempre, questo è certo. Ma ancor più certo è che forma e contenuto non possono essere scissi, almeno per quanto mi riguarda. Non riesco proprio a considerarli come due parti di una struttura sostituibili al bisogno. Alcune cose possono essere narrate solo con una certa lingua, o meglio: possono essere narrate con efficacia solo con una certa lingua. Mi piace pensare che il rapporto tra parola e materia narrata non sia unidirezionale, dall’una all’altra o viceversa. Mi piace pensare invece che i due elementi vanno di pari passo, ed è così che scrivo, o almeno che provo a farlo.

Chiudiamo con l’incipit de Le favole nuove, perché lì la parola si palesa come sola presenza di salvazione. C’è una fuga tra boschi e rotaie, sette giorni di vantaggio su cosa non si sa, c’è una stasi. Quella che trasforma i sette giorni di vantaggio in giorni di racconti e rigenerazione. Sarà forse da leggervi un legame con ben altra creazione in sette giorni, qui ridefinita dall’irriverenza di favole nuove e di un ‘verbo’ senza dio?

Senza dubbio. Il fatto che i giorni di vantaggio siano sette non è affatto casuale. Il riferimento, come ben dici, è alla Genesi, anche se lì, propriamente, i giorni della creazione sono sei, mentre il settimo è riposo. Ti confesso che sono stato giornate intere a pensare al numero dei giorni di vantaggio da dare ai personaggi di quel racconto, se sei o sette; alla fine ho deciso sette proprio per suggerire uno scostamento dal ‘modello’, e per suggerire anche la centralità del riposo, di una creazione non industriosa, di un verbo che non prescrive, di una mano che non interviene, ma che lascia andare le cose come vogliono andare.

recensione e intervista di Maria Cristina D’Alisa