Leggere Wislawa Szymborska
ovvero specchiarsi nei frammenti di un’altra
Basta così. Fulminee e definitive, parole cariche al contempo di sufficienza e di una stanca saturazione. Basta così. È questo il titolo scelto da Wislawa Szymborska (Kornik 1923-Cracovia 2012) – Nobel per la Letteratura nel 1996- per la sua ultima raccolta di poesie. Tredici scorci sul mondo, rapidi, a volte semplici, altre assurdi, disarmanti sempre. In Un tale che osservo da un po’ di tempo si procede per negazioni, una dopo l’altra, senza sosta; anche quando l’identificazione del tale è stata raggiunta, a chiudere la poesia resta una gabbia vuota, conservata proprio in quanto vuoto, in virtù del valore che l’assenza assume in un mondo soffocato da presenze. L’essere diventa problematico per Szymborska, è solo un verbo esausto ormai da tempo. Per ulteriori informazioni sul significato di sono –suggerisce- chiedete ai matti, che hanno sempre idee eccellenti. In ogni storia ricorre uno schema: prima la descrizione di una scena, comodamente lontana, banale e volutamente familiare- si tratta di quadri popolati da netturbini, cani, fidanzati in aeroporto, mani, sogni; poi, lo stupore: l’autrice ci catapulta con gli ultimi versi nella scena, senza preavviso, senza via di scampo. Le sue parole ci riguardano, e lo scorcio di vita che sembrava poetico perché distante diventa immediatamente vicino. Nulla più è comodo o banale, perché ci chiama in causa. Troviamo sempre un richiamo al presente, all’io che credeva e sperava, forse, di non essere coinvolto. La mano è la nostra, i fidanzati siamo noi. Questo modo di scrivere rivela –e insegna- l’atto della responsabilità e la dimostrazione che non è mai troppo tardi per insinuare dubbi e ribaltare situazioni. In Reciprocità il messaggio arriva chiaro e schietto negli ultimi sei versi (vv. 19-25):
E almeno una volta ogni tanto
ci sia l’odio dell’odio.
Perché alla fin fine
c’è l’ignoranza dell’ignoranza
e mani reclutate per lavarsene le mani.
Emerge, dalle parole di Szymborska, una visione del mondo senza disincanto, cruda, onesta anche quando il vuoto e l’impotenza umana sono le uniche fonti di ispirazione. Non c’è finzione, né tentativo alcuno di sfruttare le parole per la loro forma. La potenza e il successo di questi versi sta nel contenuto che veicolano, un contenuto che appartiene a tutti e che trae da questa appartenenza la propria potenza e il proprio successo; sembra di leggere frammenti della propria vita scritti da una sconosciuta, e questo aumenta il nostro senso di fiducia nei confronti dell’altro. Ci sentiamo capiti nella nostra intimità e rassicurati dal sapere che le nostre paure sono le stesse che provano anche persone lontane da noi nello spazio e nel tempo.
Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perché con indulgenza e buonumore
sul tavolo mi dispiegano un mondo
che non è di questo mondo.
Questa raccolta ha la forma di una ringkomposition: anche La mappa, l’ultima poesia, si chiude con un senso di vacuità, di non-finito. Il mondo senza barriere e senza confini esiste, ma solo sulle mappe, dove non ci si può perdere e dove tutto è vicino a tutto. Amo le mappe perché dicono bugie. Basta così.
Articolo a cura di Francesca Gelosa