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pubblicato 2 anni fa in Recensioni

L’identità perduta e l’esplorazione infinita: “QUCHI” di Caterina Venturini

L’identità perduta e l’esplorazione infinita: “QUCHI” di Caterina Venturini

Questo boccone mi fa schifo, ma lo ingoio come mi avete insegnato a fare voi, lo ingoio perché viene dall’alto, […] e io devo essere pronta a ingoiare tutto quello che può farmi evolvere ed essere migliore.

Qui c’è stato un omicidio, e l’assassino è il mio io ideale che non è mai soddisfatto, mai esaudito, e così uccide.

QUCHI (e/o) di Caterina Venturini è un romanzo sperimentale fin dal titolo. Una parola inventata, un acronimo che ha anche il suono di una parola inglese: cookie, biscotto. Il cookie a cui si fa riferimento è quello ingoiato dalla protagonista in una delle prime scene dell’opera, quando a un evento di lavoro, una professoressa le sputa letteralmente in bocca un pezzo di cracker che stava masticando.

Ma cookie è anche la stringa di codice informatico che traccia i nostri movimenti sul web – da una finestra all’altra, da uno sguardo all’altro. E infatti, a partire dall’episodio del boccone altrui ingoiato, iniziamo a seguire la storia di Carla Longhi, alter-ego dell’autrice, che insegue il filo di quello che ha perso, dei bocconi che ha mandato riluttantemente giù e di quello che cerca di recuperare. Carla è italiana e vive a Los Angeles, una città di cui non si sente parte. È una straniera nella sua pelle.

QUCHI è una parola inventata, perché il romanzo parla soprattutto di estraneità ed estraniazione dalla propria identità, a partire dalla lingua. Carla è una scrittrice che con le parole ha un rapporto tormentato: la lingua è il suo campo di battaglia. Abita negli Stati Uniti da dieci anni ma fa fatica a capire e a parlare l’inglese. Con il suo mestiere ha quella che si potrebbe definire una storia d’amore in perenne crisi.

Ho dedicato la vita alla cosa che mi viene peggio: scrivere.

La scrittura è l’attività che la definisce in modo quasi totalizzante, ma da cui tenta di scappare, così come è scappata dal suo paese d’origine, l’Italia. Carla lascia la carriera accademica, stanca dei giochi di potere, della competizione, dell’eterno inseguimento di un riconoscimento che tarda ad arrivare; eppure, non smette di colpevolizzarsi per il suo fallimento

La perenne auto responsabilizzazione di sé, appresa fin dall’infanzia, aveva indubbiamente avuto il merito di farle pensare che tutto dipendesse da lei, sempre. Anche in quel momento, seduta a tavola con il marito e il figlio, a mille anni di distanza da quei fatti – dieci a essere precisi – era sicura che la colpa maggiore per quella mancata realizzazione fosse la sua.

Il tema del fallimento accompagna il lettore fin dai primi capitoli. Per esemplificare la sua vicenda, l’autrice racconta una favola pescata dalle sue memorie d’infanzia intitolata Quel che fai tu è sempre ben fatto, in cui un contadino finisce per scambiare un cavallo con animali o oggetti di sempre minor valore, fino a tornare a casa con un sacco di mele marce. Vedendolo arrivare con il misero bottino, la moglie lo abbraccia e gli dice, appunto, «quel che fai tu è sempre ben fatto». L’autrice si identifica con il contadino, caricandosi del peso del suo potenziale sprecato. Ma incarna anche la voce giudicante della moglie, che, contrariamente a quanto avviene nel racconto, è delusa dal fiasco del marito. Fallire, tuttavia, è la spinta alla ricerca, all’esplorazione. Le domande che animano Carla (e noi lettrici e lettori di conseguenza) durante la lettura di QUCHI sono tutte incentrate sull’analisi e il superamento del senso di spaesamento e di inadeguatezza. Esiste un nostro posto nel mondo? Cosa è andato storto? C’è una sorta di ritmo investigativo che attraversa il romanzo, tant’è che Carla considera l’idea di scrivere un giallo, a un certo punto.

Qui c’è stato un omicidio e l’assassino è il mio io ideale che non è mai soddisfatto, mai esaudito, e così uccide. Ora bisogna capire chi è morto. Cosa è morto e cosa è ancora in vita.

La storia di QUCHI è anche la metastoria della stesura di un libro: le vicende di Carla sono inframmezzate dai dialoghi con l’editor e da quelli con la psicoterapeuta – dialoghi in cui la parola scritta diventa il punto di partenza di un processo di auto-coscienza. Un sintomo, come la definisce Rita, la psicologa che accompagna le riflessioni di Carla, di un trauma o di un dolore, che trova il suo sbocco sulla carta. L’altro strumento principale con cui Carla affronta il suo trauma è il rapporto con l’Altra, che è sempre uno specchio, o un doppio, dell’io narrante. C’è il continuo spostarsi da una persona all’altra: dall’autrice che parla in prima persona a Carla, il suo alterego. C’è Rita, la psicoterapeuta. C’è l’editor con cui Carla discute del suo libro. Ci sono altre donne, in continuo dialogo e confronto tra loro: familiari, amiche, rivali, sconosciute che affittano una stanza su Airbnb. Sul loro sguardo, e sulle loro parole, si costruisce la ricerca di Carla su sé stessa. La relazione tra donne è il fondamento del percorso di autocoscienza seguito dall’autrice.

Dalle parole e dall’identità, le ricerche della protagonista finiscono a concentrarsi sul corpo, in un continuo gioco di specchi tra piano materiale e metaforico. Uno degli ultimi capitoli è dedicato all’esperienza dell’aborto spontaneo, una perdita fisica che l’autrice paragona nuovamente alla mancata capacità di produrre in senso letterario. «Ora che è in pigiama con una coperta buttata addosso, Carla pensa che anche il suo terzo libro è stato un aborto. Anche lei non è mai nata per la società letteraria».

Un altro capitolo, con un titolo dagli echi ferrantiani come Storia della mia faccia racconta della decisione di Carla di rifarsi il naso. Anche in questo caso, la donna impernia la sua identità sullo sguardo altrui, e sul dialogo con altri soggetti – nello specifico soggetti femminili. Carla modifica il suo corpo e si chiede se lo fa per autentico desiderio, interrogandosi in relazione al suo percorso femminista.

Era come se con la perdita del naso sbilenco si fosse si fosse privata di una forza rappresentativa e antagonista sul mondo: sono così al di là di voi. Che non era totalmente vero per nessuno, ma ora lei rendeva lampante quella vulnerabilità con la quale aveva esposto la pelle alla lama di un bisturi a causa degli altri, dello sguardo degli altri che a loro volta avevano dovuto guardare fin dalla nascita mille altre immagini per decidere cos’era bello e cosa brutto, cos’era giusto e cosa sbagliato.

Ancora una volta è la relazione con le Altre a dare il via alla ricerca di sé, a scatenare gli interrogativi.

L’esplorazione di Carla non finisce. QUCHI è un memoir filosofico e politico, che racconta una quest eroica nel profondo dell’identità. Non è un giallo, in fondo. La tensione non si risolve. «Ci siamo quasi», sono le ultime parole della psicoterapeuta a Carla. Resta sempre l’ultima distanza da colmare.

di Irene Doda