L’incertezza delle mezze stagioni: la “Primavera” di Szalay
Forse è solo che, in queste tiepide giornate d’inizio primavera, è un’aria carica di transitorietà affilata. La fine di qualcosa, il principio di qualcosa di nuovo. Il tempo. Tutto intrinsecamente triste.
Con Primavera, edito nel 2012 ma tradotto in italiano e pubblicato da Liberilibri solo quest’anno, Szalay dimostra che ci sono ancora le mezze stagioni, che non solo scandiscono la ciclicità della natura, ma anche le fasi di una vita. A differenza del luogo comune secondo cui questa stagione rappresenta un momento di rinascita, la primavera di Szalay è incerta e color fumo di Londra. I suoi protagonisti sono Katherine e James: lei, laureata e precedentemente impiegata nell’editoria, lavora come receptionist in un albergo mentre sogna di aprirne uno in qualche luogo esotico; lui, con il fallimento di una start-up milionaria alle spalle, sembra alla costante ricerca del giusto investimento su cui scommettere. Probabilmente è proprio questo desiderio di una svolta che porta James a incaponirsi per conquistare Katherine dopo averla incontrata ad un matrimonio, anche se in assenza del famigerato colpo di fulmine.
Infatti, quasi tutti i paragrafi sono scanditi dalle attese di James, che inoltra chiamate a cui la maggior parte delle volte Katherine, deliberatamente, non risponde. L’uomo si ritrova così in un constante stato di rimuginio dovuto alla latitanza della donna, che dal canto suo è frenata dall’incapacità di prendere decisioni senza ritrovarsi in balia di ciò che le sta intorno e, soprattutto, dei suoi ricordi.
Come un canarino in fuga, il passato esce dalla propria gabbia e dà avvio a una storia inizia dalla descrizione delle prime ritrosie di Katherine e dalle conseguenti domande di James durante una vacanza a Marrakech. Un terzo attante è infatti Fraser, ex marito della donna che si rifà vivo con un pessimo tempismo nella speranza di poter rimediare ai propri sbagli. Eppure, neanche assecondando i suoi rimpianti Katherine sarà in grado di prendere una decisione, a causa della difficoltà di esprimere e di capire le proprie emozioni: la stessa che, in passato, l’aveva portata a fare degli accertamenti al muscolo cardiaco che batteva più velocemente del normale dal momento in cui si era innamorata.
Essere incapaci di reagire sembra il tema che percorre tutto il romanzo ma, a differenza di quanto succede alla protagonista de Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh, immerso nello stesso mondo di irrimediabile immobilità, non c’è psicofarmaco che tenga e Szalay lascia scontrare i suoi giovani protagonisti, avvolti dall’incertezza di ciò che vogliono e di ciò che sarà di loro, con la realtà.
Per sbirciare nelle vasche Omar doveva mettersi in punta di piedi, oppure era James a sollevarlo. La maggior parte dei lucertoloni se ne stava lì con aria triste. Magari non erano neanche tristi e dipendeva solo dalla forma delle loro bocche squamose. Magari anche allo stato libero avevano quell’aria. Anche se, pensava James, allo stato libero l’onnipresenza della paura, della necessità di difendersi, forse li rendeva meno letargici, li ravvivava un filo. In quelle vasche non poteva succedergli niente, probabilmente ormai l’avevano capito. Aspettavano solo il prossimo pasto, e mangiavano appena una o due volte la settimana.
James e Katherine sembrano costretti nello stesso terrario: rassicurati da una teca di plexiglass, sono come anestetizzati in un mondo che continua a scorrere, incapace sia di nuocere che di gratificare.
In una continua oscillazione schopenhaueriana, i due giovani inseguono quello che credono il loro oggetto del desiderio: James non è mai ritratto entusiasta delle vincite del cavallo su cui ha puntato e, allo stesso modo, anche quando ottiene le attenzioni di Katherine sente che manca qualcosa o, almeno, Szalay fa percepire al lettore la sua perenne insoddisfazione; Katherine, invece, prima rifugge le attenzioni di James in cerca dell’antica fiamma avvertita con Fraser, e poi rifiuta anche quest’ultimo, arrivando alla conclusione che per lei l’amore è morto. E così Katie decide di provare a dare una possibilità a James ma nessuno dei due è innamorato, nessuno dei due è mosso da qualcosa di più della vaga sensazione di ingannare la monotonia.
Szalay, costruendo una lode nei confronti del dubbio, riesce a dipingere la società moderna, in cui l’unica certezza è l’incertezza, come diceva Bauman sulla nostra società liquida.
Come già in Turbolenza, lo scrittore canadese fa un uso magistrale delle prospettive: la maggior parte dei personaggi ha lo spazio per raccontare il proprio punto di vista, e così ciascuno porta con sé un pezzetto di verità. Tale espediente narrativo permette –ricordando ancora una volta gli scritti precedenti di Szalay– di leggere il romanzo come una raccolta di racconti, dal momento che ogni vita potrebbe sussistere a prescindere dalle altre, probabilmente anche per merito dell’abilità dell’autore.
Di storie d’amore sono state riempite pagine e pagine di manoscritti, ma la stessa fortuna non è toccata ai rapporti che non nascono neanche. Szalay riesce invece a rendere in profondità le relazioni tra i membri di una generazione che molto spesso viene considerata superficiale: Primavera supera questo pregiudizio, e mette sotto agli occhi del lettore la difficoltà di prendere decisioni quando la vita ti si spalanca davanti con le sue molteplici possibilità in un mondo che, però, non è pronto a investire su di te.
di Giorgia Levy