L’Italia dei partiti di massa e la nascita del Partito Comunista Italiano
Livorno, 21 gennaio 1921. Esattamente cento anni fa, nella città toscana, si radunarono i principali rappresentanti del socialismo italiano e una loro parte decise di uscire dal Partito per formare una nuova realtà politica che sarebbe diventato un punto fermo della storia del nostro e di altri paesi per tutto il ’900: il Partito Comunista.
L’Italia del 1921 era un paese in fermento: nuove realtà politiche stavano surclassando le precedenti, la Prima guerra mondiale aveva lasciato aperte ferite ideologiche più profonde delle mutilazioni subite dai soldati al fronte e, come un uomo cieco, il Paese stava per precipitare nel baratro della dittatura. Per comprendere al meglio questa situazione generale, e le premesse che portarono alla nascita del Partito Comunista, occorre fare un excursus storico della politica italiana a cavallo fra l’Otto e il Novecento, del cambiamento ideologico fra pensiero liberale e socialismo e delle riforme elettorali che si susseguiranno fino al periodo subito successivo al conflitto mondiale. Questo percorso comincia riavvolgendo il nastro della Storia, come fosse una pellicola cinematografica, fino al periodo dell’unità nazionale…
Dopo la caduta dello Stato Pontificio e la presa di Roma da parte dei bersaglieri del Regio Esercito, nel Parlamento italiano del 1870 divenne necessario discutere i programmi volti a rendere forte e saldo lo stato appena nato. A contendersi la guida del paese erano Destra storica e Sinistra storica, due schieramenti di matrice liberale, due nomenclature che non hanno quasi nulla in comune con quelle odierne di Destra e Sinistra. I Governi di Giovanni Lanza, prima, e Marco Minghetti, poi, entrambi del fronte della Destra storica, erano figli del pensiero cavouriano e proponevano una politica basata sulla dialettica parlamentare, sul controllo serrato delle finanze sulle basi dello Stato “hegeliano”: uno stato forte e autoritario che governa, in maggior parte, la vita del cittadino, in pieno contrasto con il laissez-faire dello Stato liberale, difeso invece dall’opposizione.
Uno dei cardini era il controllo e il mantenimento dell’ordine e dello status quo;perciò, ciò che contraddistingue questi anni, è un controllo serrato anche sulla vita politica del paese, con un suffragio decisamente limitato (appena il 2% della popolazione rientrava negli aventi diritto e, con la riforma elettorale del 1882, non si supererà il 7%), il sistema elettorale maggioritario (che non lasciava spazio alle minoranze) e la totale ostilità del Parlamento verso i partiti politici. Ma come si poteva avere un’appartenenza politica in queste condizioni? La risposta ce la può fornire un inciso del pensatore, nonché ministro dell’Istruzione nel governo Minghetti, Ruggiero Bonghi. Parlando dei partiti, questi sostenne che «… si formano dall’alto e non dal basso …», ovvero che i deputati, eletti in collegi uninominali, avrebbero creato le alleanze di governo solo dopo essere entrati in Parlamento. Questo sistema garantiva al fronte liberale la sua sopravvivenza e la governabilità, senza dare troppo peso agli ideali dei partiti (considerati come nemici dello Stato) che, però, continuavano a proliferare nei ceti meno abbienti.
Il principio cardine dunque era il controllo; per ottenerlo, era necessario governare nell’immediato e non con progetti a lungo termine: ciò che, al contrario, rappresentava una priorità per i movimenti socialisti. Costoro mettevano al primo posto i principi di organizzazione piramidale e di fidelizzazione: il primo era alla base della struttura stessa del partito che vedeva un gruppo dirigente dare delle direttive, poi diffuse dalle sedi in tutto il paese; il secondo, invece, si colmava con le tessere di fidelizzazione e con la creazione di attività per coinvolgere le masse di affiliati. I liberali non potevano comprendere che i partiti di massa avrebbero giocato un ruolo determinante nella scena politica italiana qualche anno dopo, perché dal loro punto di vista era inutile accogliere enormi masse di contadini e operai, comprese le donne e i ragazzi, che non avevano diritto di voto. Il primo cambiamento, però, avvenne già nel 1881, quando Andrea Costa fondò il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, che tre anni più tardi diventerà Partito Socialista Rivoluzionario Italiano. Nel 1882, Costa riuscirà ad entrare in Parlamento, diventando il primo parlamentare socialista della storia. Nonostante questi cambiamenti, il Governo liberale riuscì a mantenere la maggioranza. Ma i partiti di massa avevano ottenuto una prima, seppur poco significativa, vittoria.
Il grande passo in avanti si concretizzò circa dieci anni dopo quando, nel settembre del 1893, si formò il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, che riuscirà ad aggregare tutti i nuclei socialisti in un’unica formazione. Nel gennaio del 1895, durante il congresso di Parma, venne formato il Partito Socialista Italiano: i suoi fondatori decisero di delineare, in modo ancora più marcato, le linee guida di un moderno partito di massa, con un’organizzazione territoriale capillare, basata sulle sezioni, unite in una federazione generale dotata, a sua volta, di un congresso regionale e uno nazionale, capaci di connettere la base alla cima della struttura piramidale. L’opera ebbe la sua conclusione l’anno successivo con la nascita dell’organo ufficiale d’informazione del Partito: il quotidiano L’Avanti.
Per comprendere meglio queste evoluzioni, è importante tenere a mente che il passaggio fra i due secoli è caratterizzato da due eventi: il primo è la comparsa, sulla scena politica, di Giovanni Giolitti, l’uomo delle grandi alleanze di governo, un vero rappresentante dello Stato liberale, che pur di mantenere il controllo e tenere i socialisti fuori dalla maggioranza porterà in Parlamento una miriade di nuove identità politiche fino a quando, in un estremo tentativo di risolvere una crisi politica, negli anni successivi aprirà le porte ai fascisti di Benito Mussolini. L’altro evento è l’esordio dei cattolici sulla scena politica del paese. Poco prima della presa di Roma nel 1870, Papa Pio IX, con il mai celato intento di manifestare tutta la sua opposizione al nuovo assetto dell’Italia, aveva promosso il Non Expedit, una disposizione che dichiarò inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alla vita politica nazionale. Alle elezioni del 1904, però, Papa Pio X varò la strategia clericomoderata che prevedeva l’intervento in politica qualora fossero minacciati gli interessi della Santa Sede e, con questo sistema, vennero eletti in Parlamento i due “cattolici deputati” Agostino Cameroni e Carlo Cornaggia (saranno, “ovviamente”, inseriti da Giolitti nella maggioranza).
In questa situazione già altamente instabile si aggiungerà, nel giugno del 1914, un evento senza precedenti. I colpi esplosi a Sarajevo da Gavrilo Princip non porteranno solo alla morte dell’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando, ma determineranno un effetto domino di dichiarazioni di guerra, che farà precipitare l’Europa nel primo conflitto mondiale. In Italia, la discussione sull’ingresso in guerra sarà molto accesa; il dibattito sarà tra gli interventisti, ulteriormente divisi fra chi vorrà rispettare gli accordi della Triplice Alleanza con Germania e Impero Austro-Ungarico (firmati nel 1882), e chi preferirebbe un’alleanza con le forze dell’Intesa (Inghilterra, Francia e Russia), e i non interventisti, ai quali apparteneva anche Giolitti, convinti che la neutralità avrebbe portato migliori introiti economici a un paese che aveva bisogno di diventare più forte. Alla fine prevarrà il fronte interventista di Sidney Sonnino, ministro degli Esteri, che firmando segretamente il Patto di Londra farà scendere in campo l’Italia al fianco dell’Intesa.
Per la prima volta, il paese unificato a fine Ottocento doveva portare i suoi soldati al fronte in una guerra come non se ne erano mai state. Serviva l’arruolamento di massa e, per ottenerlo, qualcosa che motivasse fortemente i ceti più bassi, esclusi dalla vita politica del paese, ma fondamentali per arricchire le fila del Regio Esercito. Si pensò alla concessione del diritto di voto e di ettari di terra in cambio del servizio militare e si raggiunsero i risultati sperati. Dopo circa quattro anni, il conflitto ci vide vincitori a un prezzo altissimo in vite umane e costi sociali: la situazione economica non era migliorata, i territori che Sonnino sperava di ottenere (terre irredente) non vennero concesse al tavolo dei vincitori (si inizierà a parlare di “vittoria mutilata”) e il numero degli invalidi di guerra, ormai inabili al lavoro, era altissimo. Per questi ultimi, le terre promesse rappresentavano l’unica sussistenza possibile.
Nella Storia si verifica spesso il fenomeno del cosiddetto “determinismo”, capace di connettere realtà lontane nello spazio in un rapporto di causa-effetto (causalità), che indica il dominio della necessità “causale” in senso assoluto, negando quindi l’esistenza del “caso”. Nello specifico, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 nell’allora Impero Russo, determinerà due eventi fondamentali per la nostra narrazione. Infatti, alla fine del conflitto nel 1918, il fronte liberale alla guida del nostro paese vide con estrema preoccupazione la concessione delle terre promesse alla massa popolare di soldati veterani, per il rischio di emulazione dei rivoluzionari bolscevichi, scegliendo di non onorare gli accordi; nel contempo, dalla Rivoluzione leninista uscirà il modello di riferimento per il futuro Partito Comunista Italiano.
Le elezioni del novembre 1919 rappresentarono una significativa e sorprendente cesura con il passato: grazie al nuovo sistema elettorale su base proporzionale e con l’estensione del suffragio a tutti gli alfabetizzati che avevano compiuto 21 anni e ai soldati, anche analfabeti, che avessero almeno 30 anni, il numero degli elettori salì da 3 a 8,5 milioni, con prevedibili vantaggi per i partiti di massa, favorevoli alla riforma agraria e alla concessione delle terre negate. Oltre ai socialisti (che, nel frattempo, avevano visto una scissione al loro interno con la nascita del fronte riformista), la vera novità era rappresentata dal nuovo Partito Popolare Italiano, nato grazie a Don Luigi Sturzo nel gennaio dello stesso anno, un vero e proprio partito cattolico (Papa Benedetto XV aveva abolito il Non Expedit) con punti di convergenza con il programma del PSI. Con queste premesse, le elezioni provocarono un vero terremoto politico: con 156 deputati socialisti e 100 popolari avvenne il superamento politico della rappresentanza individuale dei liberali e l’avvento dell’Italia dei partiti di massa.
In questo contesto, la nuova ideologia derivante dall’assetto sovietico era un riferimento importante per tutti i proletari che mai erano stati considerati decisivi per le sorti delle politiche mondiali. Si ponevano perciò le basi per un coinvolgimento di masse di lavoratori e i partiti politici più rappresentativi del loro pensiero furono travolti dalle nuove necessità che partivano dalla base. Così, al Congresso di Livorno del Partito Socialista, il 21 gennaio 1921, all’ordine del giorno figurava la discussione sui 21 punti imposti da Lenin ai partiti aderenti alla III Internazionale. Particolarmente importanti erano il punto 7, con l’espulsione dei riformisti e delle frange non allineate, e il 17, con il cambio del nome da “Socialista” a “Comunista”. Dopo ampio dibattito, il Congresso sanciva le divisioni: la maggioranza accettava la linea unitaria e rifiutava l’espulsione dei Riformisti, mentre la frazione “rivoluzionaria” con Antonio Gramsci, Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga, Onorato Damen, Bruno Fortichiari e Umberto Terracini, dava origine al Partito Comunista d’Italia.
In un momento di grandi novità, si respirava aria di cambiamenti importanti, pur nell’ambito di una situazione politica molto complessa. Infatti, alla nascita del Partito Comunista d’Italia e alle divisioni socialiste, nel 1919, a destra, si era contrapposta la nascita dei Fasci italiani di combattimento, il futuro Partito fascista, guidati da Benito Mussolini. Sarà lui a guidare, nel 1922, sull’onda del malcontento per la mancata risoluzione di molte istanze precedenti la guerra, un vero e proprio colpo di Stato, con il tacito assenso del Re. Ben presto, in un escalation imprevedibile di violenza, i partiti politici saranno banditi, i rappresentanti più in vista dei partiti storici costretti all’esilio all’estero, mentre i capi del neonato PCd’I rimarranno sul territorio nazionale, in clandestinità, divenendo punto di riferimento prima della resistenza ideologica al fascismo e, dopo l’8 settembre 1943, di quella armata contro i fascisti e gli occupanti tedeschi, con la nascita del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). La presenza sul territorio porterà un crescente riconoscimento sia ideologico che di consensi, tanto che, alla fine della guerra, sarà proprio il Partito Comunista (il nome venne cambiato nel 1943) a rappresentare le istanze dell’Italia dei lavoratori. Inoltre, sarà determinante l’apporto dei comunisti per la stesura della Carta costituzionale, in una collaborazione sovraideologica con tutte le forze antifasciste, momento di espressione democratica per il bene del Paese.
Negli anni successivi, il Partito Comunista vivrà periodi altalenanti e contraddittori, per le vicissitudini legate alle scelte politiche dell’Unione Sovietica. Non è un caso infatti che, alla dissoluzione del blocco orientale nel 1991, seguirà lo scioglimento del PCI, con la decisione del Segretario Achille Occhetto al Congresso di Rimini… ma questa è un’altra storia…
Fonti:
Paolo Carusi, I Partiti Politici Italiani dall’Unità ad oggi, Studium, Roma 2015.
Paolo Mattera, Storia del PSI. 1892-1994, Carocci, Roma 2010.
Il Partito Comunista Italiano non esiste più, almeno nella sua formazione originale, ma la sua memoria storica ha continuato a vivere attraverso alcuni dei suoi più illustri rappresentanti e pensatori. Uno di questi era Emanuele Macaluso, scrittore, pensatore, dirigente sindacale della CGIL durante il Fascismo e deputato regionale siciliano dal 1951. Parlamentare nazionale per sette legislature ( l’ultima nel 1992) e, negli anni ’80, direttore dell’Unità, l’organo d’informazione del PCI.
Macaluso è venuto a mancare solo due giorni fa, a 96 anni, mentre, a suo modo, si stava preparando alle celebrazioni per il centenario del Partito cui ha dedicato tutta una vita.
Questo articolo è dedicato a lui.