Lo straniero che dunque sono
“Aspettando i barbari” (1980) di J. M. Coetzee
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari […]
(Konstantinos Kavafis, Aspettando i barbari)
Come si fa a sradicare il disprezzo, soprattutto se è fondato su particolari insignificanti come il diverso modo di stare a tavola o una differenza nella forma della palpebra? Vuole che le dica che cosa vorrei, a volte? Vorrei che questi barbari si sollevassero e ci dessero una lezione, per insegnarci a rispettarli. Pensiamo a questo paese come se fosse solo nostro, parte del nostro Impero: il nostro avamposto, il nostro stanziamento, il nostro centro commerciale. Ma questa gente, questi barbari non la vedono affatto così (J. M. Coetzee, Aspettando i barbari, p. 64).
Ed eccomi qui a cercare di costruire un ponte tra gli uomini del futuro e quelli del passato, a restituire con tante scuse un corpo che abbiamo prosciugato (p. 91).
E che alla fine si dica, se mai in un futuro lontano qualcuno si dovesse interessare a noi, si dica che in questo remoto avamposto dell’Impero di luce è esistito un uomo che, nel profondo del cuore, non era un barbaro (p. 131).
Aspettando i barbari (1980, tradotto da Maria Baiocchi per Einaudi, 2000) è il primo libro che leggo di Coetzee, scrittore sudafricano con cittadinanza australiana, premio Nobel nel 2003, con cui vinse il vinse il James Tait Black Memorial Prize. Nel titolo naturalmente ricorda il capolavoro di Beckett, Aspettando Godot (1953), anche se al di là del greve senso di attesa che attraversa alcune scene del romanzo e della possibile dimensione simbolica (per Coetzee, forse anche allegorica) le analogie non sono molte – Coetzee dà alla sua storia una struttura molto più tradizionale; i profili dei personaggi sono tracciati con una certa cura e la descrizione dello spazio del villaggio (la prigione, le case) provoca un effetto di realtà, la diegesi prevale sulla mimesi. Al lettore italiano, per certi versi, potrebbe ricordare Il deserto dei tartari (1940), benché tra i tartari e i barbari vi siano differenze sostanziali (basti pensare al rapporto tra la prigioniera e il protagonista) e la storia di Giovanni Drogo sia segnata da una staticità ancora più marcata.
La trama è piuttosto semplice: il narratore autodiegetico (protagonista e voce narrante), un magistrato fino ad allora anonimo, trascorre un’esistenza ordinaria in una colonia dell’Impero. Poi arrivano i barbari. L’intreccio non rivoluziona granché il romanzo tradizionale: la situazione di stabilità viene turbata da un evento fuori dall’ordinario, anche mentale, a cui l’eroe deve reagire. Da lì prende avvio una storia ugualmente appassionante. Già dai passatempi del magistrato si capisce quanto siano fondamentali, per questa storia, il tempo e lo spazio: l’archeologia (colleziona manufatti di antiche civiltà scomparse, riesumati dalla sabbia, come alcune tavole scritte in un alfabeto sconosciuto) e la cartografia (si diverte a mappare territori ignoti basandosi sui racconti orali, forse a un passo dal mito, dei testimoni).
Una prima dicotomia è quella, appunto, tra spazio interno ed esterno. Se quest’ultimo si presenta potenzialmente infinito, quasi metafisico al di fuori del mondo conosciuto, anche e soprattutto come segno di un’alterità – lì, chissà dove e quanto lontano, infatti, vivono i barbari –, il villaggio dell’Impero assomiglia più che altro a un microcosmo al contempo chiuso e aperto: tutti o quasi gli eventi significativi della narrazione avvengono quando qualcuno, violando il confine, entra o esce, volontariamente o coercitivamente, dalla vita della colonia. È da sottolineare, inoltre, l’indifferenza dei presunti civilizzati, ormai radicati nel territorio, nei confronti di uno spazio esterno che vorrebbero solamente ignorare, fingendo che non esista.
Una seconda dicotomia si delinea tra una prigioniera barbara, con la quale il protagonista coltiva uno strano e ambiguo rapporto, fatto di premurosi contatti (tra cui i lavaggi rituali, dei piedi – mi ricorda qualcuno) e tuttavia fondato sulla sua cognizione di una differenza tra loro vissuta talvolta, pare, con un malcelato senso di superiorità, e una prostituta da cui va quando vuole, soltanto come cliente. La straniera ci vede a malapena ed è claudicante per colpa delle percosse subite durante la prigionia, le stesse che ha ricevuto il padre, alla cui morte ha dovuto assistere impotente. Gli è sopravvissuta vivendo una vera e propria metamorfosi, abituandosi a poco a poco:
mentre io non ho mai smesso di vederla come un corpo menomato, ferito, danneggiato, lei forse nel frattempo si è abituata a quel suo nuovo corpo imperfetto, è diventata quel corpo […] (p. 70).
L’uomo, dapprima a tratti ipocrita, sembra convertirsi, intraprende un viaggio verso un orizzonte desertico per riportarla a casa, senza poterne prevedere le dure conseguenze.
Il desiderio radicale di dimenticarla testimonia questa coesistenza di sentimenti, se non opposti, senz’altro conflittuali:
Dal momento in cui mi sono fermato davanti a lei, al cancello della caserma, e l’ho scelta, non ho mai saputo da dove derivasse quel bisogno di lei. E ora sono costantemente, risolutamente impegnato a seppellirla nell’oblio. Mani fredde, cuore freddo: ricordo il proverbio, mi tocco la guancia, sospiro nel buio (p. 109).
Con il passare del tempo, ricorderà i suoi lineamenti sempre meno nitidamente. Ma saprà davvero dimenticarla?
Il protagonista, accusato ingiustamente di complicità con il nemico, verrà perseguitato a sua volta. Per un bisogno naturale di libertà aveva rinunciato al suo ruolo di magistrato, dunque il potere e il dominio sull’altro, tradendo così l’Impero. Vittima di un’assurda reclusione durante la quale non si distingue dalle blatte che gli camminano sul viso, dubita di sé stesso e infine si ribella, sta con gli sconfitti.
Fa un sogno ricorrente (tornerà, variato, alla fine del romanzo). Quasi ogni notte vive una scena di disagio e incomunicabilità con una donna, alcuni bambini, la neve. Un dettaglio: verso la metà del romanzo, si legge che «dopo quella conversazione i miei rapporti con i soldati semplici diventano più tesi» (p. 67): «la conversazione» a cui si allude è avvenuta in un sogno che, evidentemente, ha avuto delle conseguenze sulla realtà.
Ho tralasciato il milieu del romanzo, l’ambiente storico e sociale, l’apartheid, il (post)colonialismo (Coetzee è uno scrittore sudafricano, bianco), oltre per esempio a Foucault e a chi ha studiato le implicazioni politiche della dialettica tra identità e alterità, perché è già chiaro che Aspettanto i barbari è crudamente, lucidamente politico. Forster distingueva tra homo sapiens e homo fictus. Il primo siamo noi, il secondo i personaggi dei romanzi. Questo magistrato, anche se non esiste, potrebbe avere qualcosa da insegnarci (per esempio, che siamo animali migranti). Ognuno è barbaro per qualcun altro. I soldati che arrivano al villaggio non sono meno stranieri di chi vive al di fuori dei confini: d’altronde, è lo stesso narratore a definirli «i nuovi barbari».
[…] han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente (Kavafis)
PS: Non escludo che Aspettando i barbari abbia influenzato il pur diversissimo Exit West (Einaudi, 2017) di Mohsin Hamid.
Dedico questo articolo a William Wilson. Grazie per avermelo fatto conoscere!