Culturificio
pubblicato 5 anni fa in Letteratura

Manichini

Schulz e Ligotti

Manichini

Il manichino è uno specchio – il simbolo in cui si riflette l’uomo moderno, con vergogna, più che nell’automa o nella macchina; qual è il ruolo del manichino, del fantoccio?

Mostrare un’umanità svuotata, immobile e incapace di muoversi, eppure perfetta, con gli angoli del corpo finemente levigati e i tratti che richiamano sempre a una bellezza vuota. Anche l’assenza di arti, com’è solito dei manichini da esposizione, significa l’interdizione del movimento, o una coercizione consapevole, uno stadio evolutivo in cui gli arti non servono più, sono stati recisi dalla natura dopo secoli di inutilizzo, secoli di atrofia. La prima consapevolezza in merito risale probabilmente alle prime statue, ai primi idoli apocrifi riconosciuti, eppure solo da un lasso di tempo molto più ristretto ci siamo accorti della spaventosa somiglianza, forse per una naturale regressione dello spirito che ha favorito la duplicazione dei corpi; il corpo che occupa la mente più dello spirito; e il riconoscimento facciale immediato in una figura che portasse in volto i nostri stessi tratti umani, ma che all’interno fosse cava. Prime prove di uno spavento si ritrovano nell’arte solo tramite le raffigurazioni del grottesco, di un’allegoria forzata, delle prove scritte di Bruno Schulz per semplificare l’infanzia, svuotarla di umanità per rivestirla almeno di un manto iperbolico di assurdità, non per questo meno desolante, che pur di dissimulare la mediocrità delle due adolescenti che andavano a far visita al padre in assai ambigue circostanze preferì di immaginarsele come manichini, per la perfezione dei tratti e l’assoluta innocenza, per la presenza e il tocco magico delle dita sulle carni del padre, figura che Schulz annientò in tutti i modi, restituendone l’immagine in una rosa illimitata di bestie – così il padre tesseva questa teoria del manichino, del dolore del manichino che non sa chi è, non sa perché deve restare in quella forma che gli è stata imposta con la forza, quasi come una materia stuprata, di fatto un oggetto che simula una vita, e come si doleva il padre della loro tristezza, dei loro urli dai baracconi da fiera e da dietro le vetrine…

Ma la prosa di Schulz è volutamente stilizzata, volutamente le due adolescenti erano rigide e intorpidite come nascondessero un’inermità da manichino, o forzassero un atteggiamento umano che evidentemente le riusciva male – ogni cosa nei suoi testi chiedeva una degradazione, ogni movimento doveva essere il riflesso di un istinto innaturale, non poteva essere che le adolescenti rimanessero immobili per scherno, per timidezza, dovevano per forza nascondere una natura da simulacro, da fantoccio di pezza incapace di ogni movimento. Un’immagine più chiara del manichino come mero simbolo, come una mera annunciazione della perdita di umanità, si può ritrovare solo in una certa letteratura dell’orrore, l’unica letteratura che si sia occupata in tempi recenti di ciò che si contrappone allo stato umano – in Thomas Ligotti, che pure è ossessionato dal tema, dalla contrapposizione di umano e inumano, l’interesse si sposta non sulla figura del manichino in sé, ma sull’assenza di vita, appunto, all’interno di tratti apparentemente umani. L’unico tratto di vita nelle marionette è mosso dai fili che ne trascinano gli arti, senza gli arti, come nei manichini da esposizione, la vita viene completamente meno, e si parla tranquillamente di una trasposizione umana perfetta, dell’uomo, come la marionetta nel suo teatrino è immobile e non può spostarsi dal centro a suo piacimento, l’uomo è immobile al centro di universo che non sa come maneggiare o come volgere a suo favore.

Ora vedrà, pensai in quel breve istante. Il signor Vizniak vedrà che cosa controlla i fili del pagliaccio marionetta. (da Teatro Grottesco)

Non è, quindi, la marionetta, il manichino l’oggetto da spavento, ma ciò che ne muove i fili, l’inconoscibile, il fattore che ha generato una forma umana senza vita, o che ha sottratto vita all’uomo – il manichino è solo una proiezione dello spavento, così come l’apatia, l’inumanità di una forma umana può essere solo la superficie di un’ombra inconoscibile; come inconoscibile è la figura che ha partorito e messo lì, senza alcuno scopo, i manichini di cui ha sproloquiato, in un delirio da insetto che diventa sempre più sottile e impastato, il padre di Schulz.

Articolo di Biagio Montanarella

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