Memorie dell’aldilà
Non raggiunsi la celebrità con il balsamo, né fui ministro, né califfo, e non conobbi il matrimonio. È vero che, parallelamente a queste mancanze non dovetti però pagare il pano con il sudore della fronte. Non solo: non mi toccò la morte di Donna Placida, né la semidemenza di Quincas Borba. Sommando i pro e i contro qualsiasi persona potrebbe immaginare che non vi sia stato guadagno né rimessa, che sono in pari con la vita. Sbaglierebbe: perché giunto a quest’altro lato del mistero mi trovo con un piccolo saldo, ultimo aspetto negativo di questo capitolo: non ho avuto figli, non ho trasmesso a creatura alcuna il lascito della nostra miseria.
Al lettore italiano il nome del brasiliano Joaquim Maria Machado de Assis (1839 – 1908) suonerà molto probabilmente sconosciuto. Eppure Machado de Assis è considerato uno dei maggiori scrittori del Brasile e del Sudamerica. D’altronde, la poca attenzione che nelle nostre scuole e nei nostri circoli letterari è riservata alla letteratura brasiliana non tange solo Machado de Assis, ma anche (per fare un solo esempio) João Guimarães Rosa, autore del magnifico Grande Sertão, libro-simbolo del realismo magico brasiliano e sudamericano, epopea amorosa ed esistenziale, vero capolavoro quasi misconosciuto in Italia, che mi riprometto di presentare, nei limiti delle mie possibilità, in un altro articolo.
Di magico nell’opera di Machado de Assis a prima vista parrebbe non esserci molto. La sua produzione è caratterizzata da toni scettici e ironici, da uno stile acuto e attento alla psicologia dei personaggi, in un pastiche tutto particolare, che potrebbe ricordare – per alcune consonanze e non poca suggestione letteraria – Luigi Pirandello. Lo sguardo disincantato con cui Machado de Assis studia la realtà e gli uomini assume spesso sfumature tragicomiche, amare e riflessive insieme, in una riflessività tutta logica, analitica, e però fortemente comica, a tratti leggera. Questo stile affatto particolare si fonde con elementi che se non sono propriamente fantastici né magici, sono tuttavia certamente assurdi, surreali, e l’opera più importante di Machado de Assis, Memórias Póstumas de Brás Cubas (tradotto in italiano anche come Memorie dell’aldilà), edita nel 1881, sembra racchiudere in sé un esempio estremamente riuscito di questa peculiare fusione di reale e assurdo. Come forse si sarà intuito dal titolo, l’autore putativo del libro è un alter-ego di Machado de Assis, Bras Cubas, che scrive di se stesso e della propria vita nientemeno che dall’oltretomba. Il nostro autore è già morto, com’egli stesso non manca di rimarcare più volte. La noia nell’aldilà dev’essere parecchia, e per questo, come anche per gioco o sberleffo, Bras Cubas decide di raccontarci la propria vita, senza filtri o misura: d’altronde, le memorie di un defunto, anche se scabrose, come potranno essere criticate in alcun modo dai vivi? Nonostante questo, Bras Cubas si rivolge direttamente al lettore, chiedendo talora di perdonarlo per mancanze di stile o contenuto, per il ritmo lento e noioso della narrazione, confidando nella sua onestà intellettuale, quando afferma di sperare che il signor lettore non abbia saltato qualche capitolo per tedio o insofferenza. Non manca un capitolo dedicato unicamente ai critici letterari, dalla grande forza ironica, dal tono serioso e chiaramente dissacratorio, che termina in un “Santo Dio, bisogna proprio spiegare tutto!”. Al contempo, l’opera è fitta di richiami e allusioni alla letteratura stessa: nella finzione trova spazio altra finzione; la rete di citazioni e parallelismi va dal mondo classico all’età moderna, dall’imperatore Claudio a Napoleone. Ma quello che potrebbe sembrare un puro gioco letterario (anzi, metaletterario) nasconde in sé una carica fortemente critica, nascosta sotto le riflessioni mordaci del defunto autore: bersaglio di Bras Cubas è, in primo luogo, l’ipocrisia, che in vita – lo ammette candidamente – ha anch’egli esercitato senza troppi problemi; e in generale l’insensatezza dell’esistenza umana, che pare governata dal caso, senza alcun fine, ma – mi si perdoni il calembour – con una sola fine: la morte. Ma da tutto questo il già defunto autore, proprio per via della sua condizione eccezionale – è un morto che parla della vita, e in particolare, della sua vita –, pare sempre mantenere una certa distanza: pochi rimpianti, pochi patetismi: è andata come doveva andare.
Al principio delle sue memorie Bras Cubas pone, comicamente, il suo trapasso:
Spirai alle due del pomeriggio di un venerdì del mese d’agosto del 1869, nella mia bella villa di Catumbì. Avevo sessantaquattro anni, forti e prosperosi, ero scapolo, possedevo circa trecentomila scudi e fui accompagnato al cimitero da undici amici.[…] E fu così che giunsi alla fine dei miei giorni; fu così che mi incamminai verso la undiscovered country di Amleto, senza le ansie e i dubbi del giovane principe, ma lento e quieto, come chi esce tardi dallo spettacolo: a tarda notte e annoiato.
A causare la morte è una polmonite, che sopraggiunge, per amara ironia, proprio quando Bras Cubas, a suo dire, sta per dare un senso alla propria vita: non appena gli viene l’idea per un balsamo miracoloso, “antipocondriaco, destinato a recare sollievo alla nostra malinconica umanità”, la malattia e la morte lo strappano dal mondo dei vivi. Lo sciagurato signorotto non può far altro che lamentarsi dell’assurdità di tutto questo: ha mancato la riconoscenza pubblica e la celebrità per un soffio! Come se la natura fosse indifferente alle aspirazioni dell’uomo o all’utilità che la sua opera potrebbe avere. È particolarmente interessante, a questo riguardo, concentrarsi sul Capitolo VII (dal titolo “Il delirio”), che io trovo fra i più affascinanti del libro. Bras Cubas, in preda alla malattia, cede alla follia per “venti o trenta minuti”, alienandosi dal mondo degli uomini. Diventa prima un barbiere cinese, poi la Summa Theologiae di San Tommaso; riassume infine le proprie fattezze umane e un ippopotamo parlante se lo mette in groppa e lo porta, al galoppo, “all’origine dei secoli”. Il giro del mondo in trenta minuti, verrebbe da dire. L’ippopotamo gli fa compiere un viaggio all’indietro nello spazio e nel tempo, “su una pianura bianca di neve, con montagne di neve, vegetazione di neve e vari grandi animali fatti di neve. Neve dappertutto; eravamo persino gelati da un sole di neve.” In questa dimensione fantastica, ove regna il silenzio più assoluto, compare all’improvviso “un volto immenso, una figura di donna, […] tutto in quella figura aveva la vastità delle forme selvagge, e tutto fuggiva alla comprensione dell’occhio umano, perché i contorni si perdevano nell’aria, e ciò che sembrava consistente era diafano.” All’incredulo Bras la gigantesca donna dice: “Chiamami Natura, o Pandora; ti sono madre e nemica. […] La mia inimicizia non uccide; si afferma soprattutto per la vita. Vivi: non cerco altro flagello.” Impossibile non collegare questa visione delirante al Dialogo della Natura e di un Islandese di Giacomo Leopardi, il volto immenso e selvaggio visto da Bras Cubas alla natura matrigna e indifferente del dialogo leopardiano. Che Machado de Assis avesse letto l’opera del poeta di Recanati? Non possiamo affermarlo. Ma la consonanza non pare casuale. Dopo la misteriosa apparizione, Bras Cubas assiste immobile al giro dei secoli, al sorgere e al cadere degli imperi, al dispiegarsi dei vizi e delle virtù, all’alternarsi delle emozioni, all’inutile corsa dell’uomo, flagellato e impotente, verso un’irraggiungibile felicità. Se questo dapprima gli provoca una certa angoscia, lo fa infine ridere “di un riso eccessivo e idiota”: Bras Cubas sprofonda in un’isteria che forse è anche consapevolezza della precaria condizione umana. Non appena la cosa comincia a divertirlo, nell’assoluto silenzio della Natura, ecco che il delirio finisce ed egli si risveglia nel suo letto di malato.
Cubas seguita pertanto nella sua narrazione, raccontando della sua infanzia e dell’adolescenza: la famiglia; la scuola; il turbolento amore con Marcela, un’enigmatica spagnola cui il giovane Bras fa regali su regali; la partenza per il Portogallo e l’Accademia, che lo costringono a lasciare casa e la capricciosa innamorata. Poi il ritorno a casa; la morte prima della madre e poi del padre; l’infatuazione per Eugenia, una ragazza bellissima ma zoppa. Al centro delle memorie troviamo però un’altra donna: Virgilia. Dopo una proposta di matrimonio rigettata e la sua unione con un altro uomo, la bellissima donna s’innamora di Bras Cubas, con il quale per anni intrattiene una lunga e tormentata relazione clandestina, che a causa di un paventato scandalo i due dovranno poi interrompere. Merita una certa considerazione, nel quadro sommario che stiamo offrendo dell’opera, il personaggio di Donna Placida, una vecchia sarta che tiene il gioco ai due amanti, badando alla casa che essi hanno trasformato nel proprio covo d’amore. Nella rievocazione della storia di questa sciagurata donna, il cinico Bras si lascia sfuggire, di là della consueta maschera d’indifferenza, qualche parola pietosa. Figlia di un sacrestano e una pasticcera, ella non ha una famiglia. Il matrimonio con un giovane sarto le dà una figlia, ma il marito muore di tisi dopo poco tempo. Vedova e sola, non trova un altro compagno con cui condividere la propria vita. In seguito, la madre muore e la figlia l’abbandona: la povera Placida consuma i suoi giorni nel dolore lasciatole da tanti lavori manuali e nella più pietosa solitudine. Di fronte a questa triste vicenda, Cubas s’interroga sul senso che potrebbe mai avere l’esistenza di questa povera donna, per quale ineffabile teodicea o volere oscuro ella sia dovuta nascere, se poi in vita sua ha solo sofferto. Si figura dunque quello che avrebbero potuto rispondere i genitori di Donna Placida a tali interrogativi, ai motivi per cui essi l’hanno ‘convocata’ alla vita:
Ti abbiamo convocato perché ti bruci le dita infornando, e gli occhi cucendo, e perché tu possa mangiare male o non mangiare affatto, affannarti di qua e di là a lavorare, ammalarti e guarire per poi ammalarti ancora e guarire ancora; ora triste, ora disperata, domani rassegnata ma sempre con le mani nel forno e gli occhi sulla candela, fino a concludere i tuoi giorni nel fango, o in un ospedale; ecco perché ti abbiamo chiamato, in un momento di simpatia.
Un ultimo accenno va riservato a Quincas Borba, ex compagno di scuola di Cubas, nella cui figura si mescolano i tratti del saggio e del buffone: giovane rampollo di una ricca famiglia, una volta cresciuto cade nella disgrazia materiale e morale; ereditata una cospicua somma di denaro da uno zio, si dedica infine alla creazione di una nuova dottrina filosofica, l’Umanitismo, che dovrebbe schiudere gli occhi miopi degli uomini e condurli alla felicità. Tale filosofia è tutto e niente allo stesso tempo, affermazione e negazione: tautologia per eccellenza, essa si propone di far diventare l’Uomo l’Uomo. Tutto è giustificato dall’Umanitismo: anche il dolore, la morte, la guerra. Essenza vera dell’uomo è il conflitto. Naturalmente, Quincas Borba è pazzo; ma nella sua filosofia tanto violenta, cinica e salda non possono non cogliersi accenni a dottrine filosofiche realmente in voga alla fine del XIX secolo, di cui (forse) Machado de Assis vuole qui offrire un ritratto impietoso, teso a sottolinearne la cerebrale e amorale follia.
Gli anni passano, le illusioni pure: Bras Cubas alla fine dei suoi giorni si scopre scontento, mediocre e invidioso: neppure in politica ha avuto successo, nonostante tutti i suoi sforzi. Ma così è la vita, che lui ha raccontato senza fronzoli e senza nulla tacere. Forse, vuole dirci con una punta finale di mordacità, davvero la vita non ha alcun senso e la felicità è destinata a rimanere solo un miraggio. Che questa verità venga almeno presa sul ridere, però: se siamo stati convocati al gran ballo della vita, sarà meglio lasciarci andare alle danze, senza lamentarci troppo – se non da morti, quando la musica è ormai finita.