“Minuetto all’inferno” di Elémire Zolla
Il minuetto è nella tradizione una danza popolare «di ritmo ternario e a forma binaria»: si divide cioè in due movimenti replicati – con il secondo dei due «in forma di trio».
Ha pensato a questa impostazione Elémire Zolla per il suo romanzo d’esordio Minuetto all’inferno, pubblicato per la prima volta nel 1956 in casa Einaudi, Premio Strega Opera Prima, e ritornato quest’anno in libreria grazie all’editore indipendente Cliquot. Alle sorti che affliggono quella parte di letteratura italiana finita nei dimenticatoi collettivi Minuetto all’inferno affianca anche un ingresso in società alquanto travagliato. Zolla era figlio di padre artista e orfano di madre, ragazzo problematico se si guarda alla salute: tubercolotico, viveva isolato dalla società, un novello Proust che leggeva, come riporta l’introduzione al volume firmata Grazia Marchianò, la vita del Buddha, Tao Te Ching, Alice nel paese delle meraviglie, tenendosi a distanza da colossi come Dickens.
Mentre scrive il romanzo e la tesi di laurea attraversa una fase di ricaduta della malattia polmonare; le condizioni di salute di sua madre, inoltre, peggiorano. Sullo sfondo, una città – Torino – «cupa e laboriosa». Ultimato, il manoscritto arriverà nelle mani di Elio Vittorini, in casa editrice Einaudi: le prime impressioni sono lapidarie, il libro viene definito «arcaico e presuntuoso», parte di «un intero filone di letteratura […] inesplicabile». E leggendo Minuetto all’inferno, infatti, il dubbio che si tratti di un libro «cervellotico o libresco» viene con una certa facilità.
Nel rispetto della struttura del minuetto, il libro è la tragicomica favola di due giovani, Lotario Copardo e Giulia Pautasso (Utasso come sceglierà di farsi chiamare da tutti). La prima parte è, appunto, bipartita: si alternano, per quattro volte, un «capitolo della storia di Lotario» e un «capitolo della storia di Giulia». È così che facciamo la conoscenza dei due ragazzi, scultore lui, pittrice lei; non si conoscono, non vivono nello stesso posto, ma sin da bambini mostrano dei lati singolari del proprio carattere, inclinazioni al peccato, una certa avversione agli affetti. Giulia, manipolatrice di amori lesbici e arti divinatorie, Lotario, inerme di fronte alla morte: dall’infanzia all’età adulta, i tratti di una vacuità dell’essere sono evidenti.
Lotario seppe così di celare dentro di sé qualcosa che non gli apparteneva, di cui non avrebbe mai potuto disporre a suo piacimento, qualcosa di funesto che gli faceva pulsare il cuore fino a dargli le vertigini.
[…] Sotto la fungaia di comignoli non avrebbe mai trovato altro che laidezza, inganno, aridità, vuoto e lussuria, o vuoto e follia.
A seconda del protagonista del capitolo, Zolla modula il registro stilistico, in un lessico sofisticato che si addice perfettamente ai due giovani, con un linguaggio ancor più ricercato quando a parlare è il protagonista maschile. La prosa rende giustizia al prototipo sociale rappresentato da Lotario e Giulia: sono lo specchio di una borghesia in decadimento, dei salotti dissoluti. Sono spinti da mediocri velleità artistiche, con desideri che esprimono attraverso parole artificiose. Lotario e Giulia sono i due antieroi per eccellenza, archetipo negativo della società e rappresentanti della fine degli ideali durante gli anni del regime fascista, sul finire della guerra: non hanno tentato strenuamente di opporsi al regime, relegando la cosiddetta ombra scura al di fuori delle porte, ma essa è trapelata dappertutto, anche fra i più privilegiati.
Al loro incontro e alla fatua consacrazione del loro amore è dedicata la seconda metà della prima parte: da due personaggi di questo tipo non ci si aspetterebbe nessuna forma di romanticismo. Persino la loro unione sembra dettata da un «folle e malvagissimo signore». All’attrazione sensuale che li unisce, subentrano altre e più importanti esigenze. Giulia non prende mai in considerazione l’idea di ufficializzare l’unione con Lotario: sposerà infatti, senza grandi preamboli né slanci, Edmeo Nepote, uno sfaccendato che come unica occupazione ha quella di provare ad accaparrarsi, assieme a sua madre, una qualche dote di cui poter campare. Anche Edmeo rifugge da ogni sorta di ruolo sovraimposto, e assiste con tranquillità e talvolta curioso compiacimento alla relazione che pure prosegue tra sua moglie e Lotario. Il triangolo, così composto, sembra in effetti consolidarsi e procedere in acque quiete e miti.
Ma perché la favola allegorica di Elémire Zolla si concretizzi, è necessario che qualcuno decida di intervenire e scombini le carte. Chi, se non Dio e il diavolo in persona, può subentrare affinché i due protagonisti realizzino il loro destino? Nella seconda parte lo scenario si sposta in cielo, e sembra di trovarsi davanti a un romanzo nuovo, che può esistere in maniera autonoma. È di fatto la sezione più filosofica di Minuetto all’inferno, in cui due fazioni, bypassando il confronto, si sfidano a suon di teorie sui massimi sistemi. Da un lato c’è Dio, le cui (deboli) armi sono la fede e la pietas, le uniche opzioni a suo dire a disposizione degli esseri umani; dall’altro il diavolo, per il quale il dolore è l’unica strada percorribile affinché si possa provare a cogliere il senso delle cose, della vita. Decidere le sorti di Lotario e Giulia equivale a propendere per l’una o per l’altra strada, ma entrambe sono fallimentari, entrambe istruiscono file di soli perdenti.
In questa «danza macabra» dal sapore grottesco e decadente, lo sguardo è quello di Zolla, ormai disilluso dopo la fine della guerra: il «morbo» del fascismo si è infiltrato e agli uomini non resta altro che la grettezza, un’esistenza senza infamia e senza lode. Quanto più è disincantata la visione, tanto più è ilare lo scenario in cui si muovono Giulia, Lotario, Edmeo. Loro possono trastullarsi in conversazioni sul godimento effimero e sul suo appagamento. Ancora una volta la vacuità esistenziale irrompe nel romanzo, trascinando tutti a fondo.
Il demiurgo che ha di fatto plasmato quell’umanità non è Dio e neppure il diavolo, è l’ombra di quel dittatore di cui non ci si può dimenticare.
Decadente, inattuale, cervellotico, allegorico: Minuetto all’inferno è un capolavoro da rileggere e riscoprire.