Non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza
"Una storia semplice" di Leonardo Sciascia
Palermo. 18 ottobre 1969. Le sorelle Gelfo, custodi dell’Oratorio di San Lorenzo, denunciano la sparizione di un olio su tela di Caravaggio: Natività con i Santi Lorenzo e Francesco. Semplicissima, quasi elementare la dinamica del furto, anche perché non vi è alcuna misura di protezione per quella che è l’unica opera del Merisi presente a Palermo. I malviventi, dopo essere entrati facilmente nella chiesa, staccano il dipinto dal muro, tagliando la tela in corrispondenza del bordo della cornice con una lametta da barba, per poi dileguarsi indisturbati con un bottino, di cui forse neppure comprendono il valore. Un giornale siciliano peraltro riporta la notizia che il prefetto, da pochi anni nel capoluogo siciliano, non era a conoscenza del fatto che in città fosse custodita, o meglio incustodita, un’opera di tale inestimabile valore. È appunto questo aspetto della vicenda – una delle tante storture della burocrazia – a colpire l’attenzione di Leonardo Sciascia: «chi avrebbe potuto o dovuto informare il prefetto dell’esistenza del quadro?», si chiede lo scrittore sulle colonne del «Corriere della sera».
Trent’anni dopo, questa vicenda torna in mente al maestro di Racalmuto durante la stesura del suo ultimo racconto, Una storia semplice, scritto pressoché di getto nelle sue ultime settimane di vita e destinato a uscire nella «Piccola Biblioteca Adelphi», il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 20 novembre 1989. Questo breve scritto può essere considerato una vera e propria appendice del Cavaliere e la morte, romanzo pubblicato un anno prima (1988). Lo evidenziano l’epigrafe nel segno di Friedrich Dürrenmatt («Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia»); il carattere di sotie del titolo – la storia raccontata, una vicenda di mafia e droga, è tutt’altro che «semplice» – e la presenza appunto di un quadro «scomparso, riapparso […] e, presumibilmente, di nuovo scomparso», dispensatore di morte.
Tuttavia se Il cavaliere e la morte può essere considerato come riflessione ‘finale’, non senza una punta di elegia, sulla contemporaneità, Una storia semplice è un vero e proprio “alfabeto sciasciano”: un catalogo di tutti i temi e i personaggi che hanno affollato l’universo narrativo dell’autore di Il giorno della civetta, a partire da una delle architravi della sua poetica, cioè l’idea che la letteratura rappresenta «la più assoluta forma che la verità possa assumere» (Nero su nero, p. 834). Infatti l’inquirente protagonista del racconto, il brigadiere Antonio Lagandara – incarnazione di quella «passione giuridica del siciliano» formatasi, a detta di Sciascia, nel corso dei secoli – giunge alla risoluzione, sia pure parziale e “inutile”, del caso, sorretto non tanto dal solido acume contadino trasmessogli dal padre, quanto piuttosto dalla sua frequentazione della parola scritta: proprio «il fatto di dover scrivere delle cose che vede(va), la preoccupazione, l’angoscia quasi, da(va) alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato e acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrittore restava». Aspetto questo che lo accomuna agli «scrittori italiani del meridione, siciliani in specie»; a quegli “scrittori di cose”, come Verga e naturalmente Pirandello.
Del resto, proprio per ritrovare le lettere spedite dall’autore del Mattia Pascal in gioventù al nonno (oltre a quelle spedite da Garibaldi al bisnonno) – lettere in cui si evince che «a diciotto anni, Pirandello pensava quel che avrebbe scritto fin oltre i sessanta» – la vittima, un ex diplomatico in pensione, torna in Sicilia, nella sua vecchia casa di campagna, da cui manca da anni, e fa la scoperta che gli sarà fatale: il suo vecchio casolare è stato nel frattempo trasformato in un deposito di droga e di oggetti rubati. E proprio alla luce dell’autore agrigentino, Lagandara si spiega come il commissario, colpevole del delitto (non a caso, è solito intimargli: «non facciamo romanzi»), possa essersi tradito in modo così ingenuo, trovando a colpo sicuro l’interruttore della luce nel solaio della villa, dove non può esserci mai stato:
Forse un fenomeno di improvviso sdoppiamento: in quel momento è diventato il poliziotto che dava la caccia a sé stesso.
Ed enigmaticamente, come parlando tra sé, aggiunse: «Pirandello».
È stato da più parti evidenziato (citiamo, tra tutti, i seminali studi sciasciani di Massimo Onofri) come Una storia semplice segni, insieme all’Alfabeto pirandelliano e a Pirandello mio padre, l’estrema ricomposizione di quel rapporto complesso e contradditorio, che lega Sciascia allo scrittore di Girgenti. Qui ci limitiamo soltanto a sottolineare come i numerosi tipi che affollano il racconto – non si può parlare di personaggi data la maniera quanto mai essenziale in cui sono delineati – sono altrettante rappresentazioni di quel «“troppo umano” della Sicilia», di quell’«umano nella sua forma più esasperata, estrema, micidiale anche; l’umano al limite del vivibile», che Sciascia coglie in Pirandello, come egli stesso ha modo di sottolineare in una intervista a Claude Ambroise. Pensiamo al tragicomico gioco delle parti con cui gli inquirenti – polizia e carabinieri – conducono le indagini o al superficiale magistrato poco interessato alla scoperta della verità e pronto a relativizzare ogni fatto per il proprio tornaconto. O alla vittima, il cui cognome, Roccella, è lo stesso del protagonista del romanzo pirandelliano A mio marito, Giustino Roccella nato Boggiolo, alla moglie e al figlio – che non era il figlio – di questi, l’una interessata solo alla “roba” del marito, da cui era separata da anni, l’altro tutto preso dal commosso ricordo del padre e dei luoghi in cui aveva trascorso l’infanzia, nonostante la madre gli abbia fatto capire di averlo concepito con un altro uomo («le madri non si possono scegliere, che io di certo non ti avrei scelto… d’altra parte, tu sicuramente non mi avresti scelto come figlio… ma i padri si scelgono»).
Ma Una storia semplice è ancora una volta – come sempre in Sciascia – un giallo senza catarsi, che non ha alcuna soluzione nella giustizia. Uno dei colpevoli, il commissario, viene scoperto e ucciso da Lagandara in una sorta di duello western, ma tutta la verità viene poi occultata:
«Incidente» disse il magistrato. «Incidente» disse il questore. «Incidente» disse il colonnello.
E perciò sui giornali: Brigadiere uccide accidentalmente, mentre pulisce la pistola, il commissario capo della polizia giudiziaria.
Così per l’ultima volta lo scrittore siciliano mette in scena un potere onnipervasivo, corrispondente a quell’idea di mafia che egli era andato maturando, vale a dire, un tessuto molto vasto di costume e di degenerazione politico-affaristica, che va ben al di là di una pura e semplice organizzazione criminale. Un potere che è un vero e proprio cancro dinanzi al quale il professor Franzò, vecchio amico della vittima, che partecipa alle indagini, non può che dire: «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza». Per non parlare del testimone oculare arrestato per sbaglio, che, alla fine, dopo aver riconosciuto casualmente l’altro assassino – Padre Cricco, un altro dei preti “cattivi” sciasciani – preferisce tacere per non cacciarsi in un altro «guaio, e più grosso ancora» e riprendere «cantando la strada verso casa».
di Vito Santoro