Non esisto dunque sono: il mai nato Carmelo Bene
Chi è Carmelo Bene? È mai esistito un tale chiamato così? Forse, in una vita amorfa e immateriale, in una qualche parvenza illusoria che ci ha fatto credere di esistere in questo frangente del mondo possibile.
Carmelo Bene è questo: è genio, mente sopraffina, pensiero contro l’ontologia. Perché continuare ad illudersi di esistere, di esserci? Perché parlare e non essere parlati dai significanti che traforano e trapassano i nostri organi? Perché credere di essere io anche quando non lo si è? Riconosciuto e ammirato come uno dei maestri intellettuali del teatro italiano del ‘900, Carmelo Bene è stato un personaggio (o, per meglio dire, il personaggio) in grado di distruggere e di destrutturare qualsiasi senso comune: il suo è il cosiddetto Grande Teatro, un luogo in cui il concetto teatrale si disgrega e si frantuma, diventando disfacimento. E lui, il non-attore, ne rappresenta l’embrione ergendosi come macchina attoriale, che rappresenterebbe il connubio tra l’entità dell’attore e quella della macchina, ed è come se questa neo-nata creatura fosse un’estensione del suo corpo, della sua voce (che definisce «la protesi del mio io»), delle sue idee: la macchina, in qualche modo, diventa oggetto e non soggetto delle proprie azioni, non parla ma viene parlata, non possiede più un corpo ma è il corpo (la frase viene da questa intervista al Maurizio Costanzo Show).
Questo accade perché lo stesso linguaggio che viene utilizzato è totalmente de-strutturato: non esistono più significati ma solo significanti, che ci trafiggono e ci assoggettano, facendoci diventare succubi di un qualcosa che non possiamo controllare, pur illudendoci di farlo. La macchina attoriale non recita, Bene non ha mai fatto nulla di simile sulla scena: re-citare, ci dice, significa citare la cosa, rifarsi inevitabilmente a qualcos’altro, ma in ogni sua performance Bene non è lui, il soggetto non c’è e non esiste, così come non esiste un copione da seguire. Lui è il deserto, l’assenza, il nulla in un mondo impossibile. Questa trasfigurazione materiale e ideale avviene soprattutto in seguito al rifiuto da parte di Carmelo Bene dell’ontologia: non esiste, non esiste nessun io e lui non è lui. Di io ce ne sono molti, come molti sono i doppi ai quali possiamo riferirci (e talvolta sono così numerosi che si annullano tra di loro), ed è come se fosse presente una scissione interna che permette una sorta di de-personalizzazione e di creazione di un nuovo (non) essere al di fuori di sé (o della sua illusione).
Per non esistere, ci dice Bene, bisogna deporre la volontà e la coscienza civile delle cose, perché nel momento in cui non si è non si può essere soggetti a nessun tipo di abuso, possiamo adagiarci e languire nella condizione d’abbandono che gli artisti tanto agognano, non essere oggetto dell’occupazione di nessuno, tantomeno dello Stato, vittima delle sue più feroci critiche. Quest’ultimo infatti si occuperebbe della mediocrità, di quell’arte che è borghese, consolatoria, ruffiana, misera come l’intelligenza nel senso più comune del termine: Bene va oltre. È il genio che vuole essere trascurato dallo Stato, la macchina presente-assente, colui che sente gravoso sulle proprie spalle il disagio di non esserci, avvicinandosi ad una condizione sempre più immateriale ed inorganica. Il suo stesso teatro vuole essere incomprensibile, come una mimesi ricalcata sulla vita: l’arte deve essere incomunicabile, superare sé stessa senza il bisogno che questa venga intesa dagli altri, perché in fondo non c’è nulla capire.
Per Carmelo Bene il teatro è semplicemente un momento grandioso, ma vano, un semplice attimo, in cui l’atto, per agire, deve dimenticare l’azione. Non c’è nessuna scena, non c’è pubblico, non c’è quotidiano: maggiore è il numero di spettatori maggiore è la sensazione di avvilimento e solitudine. Considero Carmelo Bene un capolavoro (mancato, come lui vuole credere), ma pur sempre un’opera d’arte di nicchia: quel miraggio intellettuale che non ti saresti immaginato d’incrociare, quel guizzo geniale inaspettato, che pur non avendolo chiesto, si ritrova nella storia e nel flusso della (non) esistenza. Tutto è phoné, tutto è rumore, e chi c’è e crede d’esistere fraintende le parole (e soprattutto la Parola e il Verbo), applaudendo e ammiccando all’ovvio, perché è in questa maniera che si comporta chi non riesce a capire il linguaggio che utilizza il corpo per parlare. Il non esistere e il non esserci implica per Bene anche il non conoscere, l’ignorare, che non sono però caratteristiche attribuibili a colui che non sa per natura, ma sono qualità consapevoli di colui che decide di non conoscere, di de-realizzare l’ambiente circostante uscendo dal proprio pensiero.
Per concludere, vorrei aggiungere che Bene viene considerato da molti conoscitori del settore l’uomo di teatro per antonomasia, l’attore multiforme che riesce a rendere suo qualsiasi testo: “reciti alla Carmelo Bene”, “parli alla Carmelo Bene”, non sono altro che complimenti, forse, che sminuiscono il pensiero, la condizione intellettuale e (non) esistenziale di questo grande (non) artista. È stato uno di quegli uomini che nella vita ha voluto, in qualche modo, ricercare la sua infelicità e il suo male, perché era lui stesso a credere che «la felicità è nel differire la vita, non nell’averla».
Fu un uomo probabilmente sottovalutato dalla cultura contemporanea (nonostante abbia lavorato con grandi artisti come Pasolini, per citarne uno), forse perché peculiare, bizzarro, sui generis. Ma oggi, così come allora, avrebbe gridato a gran voce solo e soltanto una cosa: che si fotta l’essere, abbasso l’ontologia!