“Novella degli scacchi” – L’ultima mossa di Stefan Zweig
Su un piroscafo passeggeri salpato da New York alla volta di Buenos Aires ci sono tre uomini che hanno abbandonato il loro ‘mondo di ieri’, la propria patria, in cerca di una nuova vita.
C’è il freddo e rozzo orfano di un battelliere del Danubio che, dopo un’esistenza anonima nel Banato, è ora il campione mondiale di scacchi e si è guadagnato le luci della ribalta; c’è il garbato e mite viennese titolare di uno studio (il)legale dei beni degli Asburgo e della Chiesa, nemici dichiarati del Reich dopo l’Anschluss, che è riuscito a fuggire dalle finestre con le sbarre della Gestapo; c’è Stefan Zweig, tra i più noti scrittori del primo Novecento, che ha visto bruciare i propri libri nei roghi nazisti e che viaggia, con la latente malinconia di chi non è più e non sa ancora chi sarà, insieme a questi Argonauti che hanno deciso di votarsi a una Medea, ora bianca ora nera.
Da sempre mi affascinano tutte le categorie di persone monomaniacali, arroccate su un’unica idea, giacché più ci si autodelimita, più, di converso, si sfiora l’infinito; e proprio queste persone che in apparenza rifuggono il mondo, nella loro materia prediletta si costruiscono, alla stregua delle termiti, una bizzarra e del tutto singolare miniatura del mondo.
A unire questi tre fuggiaschi c’è l’esperienza degli scacchi, un porto sicuro – anche se non indenne dalle burrasche – in cui rifugiarsi, ripensarsi e ricostruirsi. Le loro mosse e contromosse sulla scacchiera guardano a un obiettivo preciso: il primo vuole accumulare denaro e ribaltare un’esistenza ai margini della società, il secondo riempire un vuoto in cui è stato immerso e non perdere la padronanza di sé stesso, il terzo, che scruta i primi due, vuole offrirci una diagnosi, che è anche una sentenza, della natura umana. Le tre storie confluiscono nella Novella degli scacchi, uscita postuma nel 1942, ripubblicata quest’anno dall’editore Lindau nella scrupolosa e limpida traduzione di Juliana De Angelis che si è basata sui recenti e autorevoli studi sui tre tiposcritti invitati dall’autore, e si confrontano nella loro singolarità con la pluralità, misteriosa e fascinatoria, di un gioco che si sottrae alla tirannia del caso, mentre altre tirannie stanno dando scatto matto alla lontana Europa.
Czentovic è la star del piroscafo, una sorta di nuova asina di Balaam, il villico degli scacchi alla cui tenace e fredda logica di giovane analfabeta soccombono fior fiore di scacchisti. Perfetto outsider, vuole vedere sconfitta sulla scacchiera tutta la gente colta e brillante che osa sfidarlo.
Zweig, appassionato scacchista, ne ammira il genio ma non l’uomo che è diventato, avido e orgoglioso: lo considera una pagliuzza d’oro in un quintale di roccia sterile, un sovrano nel vicolo a senso unico tra neri e bianchi che si sente superiore e osserva sprezzante i dilettanti che si cimentano nella sua arte.
Le partite si susseguono con sonore sconfitte di tutti finché all’improvviso non compare, un viso magro, pallido, invecchiato precocemente, che suggerisce, come se leggesse da un libro, alcune mosse di attacco per raggiungere almeno la patta con il campione, per poi sparire.
Si tratta del Dottor B., l’esorcista degli scacchi, che irrompe sulla scena attratto dal tavolo di gioco e nelle cui vicende si riverberano risvolti autobiografici dell’autore. Zweig lo avvicina sul pontile: sono entrambi austriaci, in fuga, e presto conosceranno l’esilio. Ne nasce una confessione a visiera alzata, che ci racconta un’altra forma di privazione della libertà:
Confinando ciascuno di noi nel vuoto più totale, in una stanza ermeticamente separata dal mondo di fuori, puntavano a fare generare in noi dall’interno, anziché dall’esterno con le percosse e il freddo, quella pressione che avrebbe finito per aprirci le labbra. […] si restava irrimediabilmente soli con sé stessi, con il proprio corpo e quei quattro o cinque oggetti muti, tavolo, letto, finestra, catino; si viveva come un palombaro ormai conscio che la cima che lo collega al mondo esterno è spezzata e non verrà mai più recuperato da quell’abisso senza suoni.
Il nulla viene interrotto solo da estenuanti interrogatori dei nazisti, per capire dove sono i documenti che il Dottor B. ha fatto sparire, finché non riesce a impossessarsi di un libro, una raccolta delle centocinquanta partite dei grandi maestri degli scacchi.
Il testo si configura così come deus ex machina e a questo punto lo schiavo del nulla impara, con gli scacchi, il gioco del tutto, delle possibilità, prima a mente (cosa che manca a Czentovic) e poi su una scacchiera di fortuna. Il gioco diventa occupazione, compagnia e senso, permette di neutralizzare il nulla intorno e di allenare il proprio ‘io’ nella difesa contro false minacce e manovre nascoste, utili a mascherare le debolezze durante gli interrogatori. Ma quando il Dottor B. giunge a un punto morto la Medea (quella di Euripide) degli scacchi sembra voler uccidere i propri figli: dopo avere ripetuto le partite più e più volte, per continuare a distrarsi e per sopravvivere, decide di giocare con sé stesso, contro sé stesso:
Ognuno dei due Io, il mio Io nero e il mio Io bianco, dovevano competere l’uno contro l’altro e ciascuno per contro proprio furono colti da un’ambizione, da un’impazienza di vincere, di trionfare; dopo ogni mossa, nella mia veste di Io nero attendevo febbrilmente cosa avrebbe fatto l’Io bianco. Ciascuno dei miei due Io trionfava quando l’altro commetteva un errore, e al tempo stesso si esasperava per la propria inettitudine.
Così il piacere di giocare si tramuta in vizio, poi in coazione, infine in una mania frenetica che permea le ore di veglia e si insinua progressivamente nel sonno, fino al delirio, in una dissociazione dove le due parti si annullano a vicenda. Ma quando quella sera sul piroscafo il Dottor B., a distanza di tempo, rivede gli scacchi, si dimentica il proposito di starne lontano e non riesce a fare a meno di intromettersi. In fondo è fuggito dall’Austria nazista ma non dagli scacchi, perché il conto è ancora aperto. Tutti i passeggeri non chiedono altro che il Dottor B. sfidi Czentovic. E la semiotica della frontiera potrebbe regalarci preziose letture di personaggi così antitetici. Anche in questo sta la ricchezza di Novella degli scacchi. Va dunque in scena l’atto finale, e non un nuovo inizio. C’è ancora una partita per il Dottor B. e, in fondo, facciamo tutti il tifo per lui.
di Claudio Musso