“Orbital” e l’illusione del quassù
bellezza, ambiente e guerra nello spazio
La Terra è bellissima da quassù.
Siamo a bordo di una stazione spaziale, o forse siamo solo tra le pagine di Orbital, romanzo non-romanzo di Samantha Harvey, vincitore del Booker Prize 2024, tradotto in italiano da Gioia Guerzoni per NNE. Sedici orbite, quattro astronauti e due cosmonauti ruotano placidamente attorno al pianeta Terra, che appare più meraviglioso che mai.
Basterebbe questo per riassumere Orbital: il motore che muove il romanzo non è la trama, non sono i personaggi – comunque funzionali allo sviluppo narrativo –, ma le ambientazioni e le descrizioni dei prodigi e delle bellezze terrestri. Harvey descrive con pennellate realistiche ciò che gli astronauti vedono dallo spazio: la prospettiva è verticale – dallo spazio alla Terra –, mai uguale a sé stessa, e soprattutto combina sapientemente elementi scientifici ed empirici con un incanto tipico della riflessione e del lessico poetico. Il lettore è coinvolto in prima persona implicato per il puro piacere di leggere, di immaginare, ed è trasportato in orbita con gli stessi protagonisti. Non si viene mai intrappolati in un lirismo distaccato ed eccessivamente carico, ma si è trasportati da una poetica dell’immagine tangibile per quanto sembra reale. Il ritmo non cede il passo a sbavature o a elementi superflui, tutto è calibrato affinché lo sguardo del lettore rimanga sempre vigile e curioso.
Con pennellate che intrecciano poesia e verità scientifiche Harvey tratteggia un mondo come non lo abbiamo mai visto, e come probabilmente – salvo nella nostra fantasia – non lo vedremo mai. Sembra quasi impossibile pensare, addirittura descrivere, ciò che si prova nello spazio, è ineffabile, è indicibile: «Quassù piacevole è una parola così aliena. È brutale. disumano, opprimente, solitario, straordinario e magnifico». Mentre si legge Orbital, ci si sente tuffati in una realtà altra, che non può essere capita o decodificata ma solo accettata nella sua magnificenza.
Ed emerge in coloro che stanno esplorando lo spazio un’ambiguità morale e sociale difficile da comprendere. Lo spazio isola, la routine degli esperimenti dà continuità, ci si sente come i prescelti, come persone che stanno compiendo passi importanti per la storia dell’umanità. Egoisticamente si vorrebbe rimanere per sempre quassù, ma si è consapevoli che è solo la lamiera di metallo dell’astronave ciò che divide dalla morte. Ma soprattutto, si è coscienti dell’equivocità del progresso, che è tanto affascinante quanto non intrinsecamente buono:
E allora la bomba atomica e le stelle finte che metteremo nello spazio con i loghi aziendali, e i palazzi che vogliono piazzare sulla Luna, stampati in 3D con la sua polvere? […] Non hai chiesto se il progresso è una buona cosa, e una persona non è bella perché è buona, è bella perché è viva, come un bambino. Viva e curiosa e inquieta. Non importa se è buona. […] Certo, a volte sono distruttive, egoiste, a volte ti feriscono, ma rimangono belle perché sono vive. E il progresso è così, vivo per natura.
Harvey riflette su come il progresso contemporaneo sia anche figlio del capitalismo sfrenato, di una ingordigia difficile da ignorare: la ricerca spaziale esiste perché esistono piani di colonizzazione dello spazio, esiste perché i miliardari non sono più interessati alla conquista della Terra e perché vogliono sempre di più, senza mai fermarsi. È la nuova corsa allo spazio: se durante la Guerra Fredda la sfida era tra superpotenze che riflettevano le loro ideologie (capitalismo e comunismo), adesso è tra super ricchi. Il capitalismo ha vinto e la battaglia per il primato sui cieli non sembra nient’altro che una partita a Risiko tra uomini annoiati. E nonostante le bellezze e le catastrofi che si vedono dalle stazioni orbitanti, nonostante i tifoni e la placidezza, le albe e le nuvole, il buio e la luce, nonostante tutto la conquista dello spazio presuppone un grado di inquinamento atmosferico pressoché inconcepibile.
Forse è nella natura dell’uomo sporcare quanto di bello esiste, o forse è proprio questo il bello: un’autodistruzione accelerata e senza possibilità di ritorno. Forse siamo come i dinosauri, maestosi, strani, enigmatici, destinati tuttavia a scomparire – non sotto il segno del caso, ma della nostra stessa essenza. Leggendo Orbital si pensa che sì, è bellissimo essere parte del tutto, ma che a questo tutto non serviamo poi così tanto. Che il miracolo della vita sembra qualcosa di programmatico, di stupendo e terribile allo stesso tempo, che egoisticamente esiste un Dio che ci ha voluto e che siamo al centro dell’universo. Eppure, anche gli astronauti e i cosmonauti sono terribilmente consapevoli che no, non siamo gli unici, e che la nostra millenaria esistenza è frutto di una coincidenza inspiegabile.
L’autodistruzione in Orbital si esprime anche attraverso la guerra e i confini: è facile e bellissimo, appunto, ignorarli da quassù. Vorremmo che non esistessero, questi maledetti confini che uccidono, privano, discriminano. La guerra è anche quassù, anche se non la si vede: ci sono gli astronauti – gli occidentali, e i cosmonauti – i russi, sono differenziati da una sfumatura linguistica lieve, una distinzione lessicale che permane anche dopo la Guerra Fredda. La stazione spaziale è divisa, immaginari confini territoriali e bellici ci sono anche qui, sono nei bagni separati per i russi, sono nell’apparente rimosso, così chiassoso nel suo silenzio, della guerra in Ucraina.
Vedrete la sua pienezza, la sua assenza di confini se non la linea tra mare e terraferma, dicevano. Non vedrete paesi, solo una sfera rotante che non conosce possibilità di divisioni, e tantomeno guerre. E vi sentirete tirati in due direzioni simultaneamente. Euforia, ansia, estasi, depressione, tenerezza, rabbia, speranza, disperazione. Perché ovviamente sapete che le guerre abbondano e che la gente uccide e muore per i confini.
Forse è davvero bellissimo e crudele potersi illudere mentre orbitiamo, ignorare le catastrofi ecologiche e sociali anche da quaggiù, dove abbiamo ancora il privilegio dell’oblio. Ma forse Harvey ci suggerisce che in questa bellezza c’è sempre uno scarto, un anello tanto affascinante quanto malvagio che ci pungola e che ci fa interrogare. E sarebbe davvero meraviglioso vivere in un’utopia spaziale, tutti a bordo di una stazione spaziale rotante, mentre osserviamo la Terra da lontano, senza apparentemente distruggerla.
E se quassù non fosse un’evasione, ma uno specchio? Un modo per vedere più chiaramente che quello che c’è quaggiù, che la bellezza non ci assolve delle nostre colpe e che guerre e violenza non scompaiono se proviamo a ignorarle. Harvey ci invita a capire tutta la contraddittorietà del quaggiù grazie a uno sguardo sopraelevato: progresso e confini non sono nient’altro che illusioni e simboli delle nostre contraddizioni. Siamo vulnerabili e capaci di distruzione, cinici e sempre alla ricerca della meraviglia. Un po’ come il nostro pianeta.
di Carola Crippa