Culturificio
pubblicato 2 mesi fa in Letteratura

“Ore Giapponesi” di Fosco Maraini

come letteratura che disinfetta l’anima

“Ore Giapponesi” di Fosco Maraini

L’8 settembre 1943 Fosco Maraini si trovava in Giappone con la famiglia, occupato dal lavoro che aveva ottenuto già prima del conflitto mondiale: il lettore di letteratura italiana presso l’Università di Kyoto. Quando gli fu chiesto cosa pensasse della Repubblica di Salò, rispose con un educato ma deciso: «No, grazie». Per un giapponese, questo significava una cosa sola: guerra, e i giapponesi non sono mai andati per il sottile con i nemici della patria.

Ora, quando riflettiamo sul Giappone di allora, non dobbiamo immaginarci quello odierno. Ci capita di vedere immagini di Tokyo o di altre megalopoli giapponesi, spesso sovrappopolate e per certi aspetti simili (almeno superficialmente) alle grandi città occidentali. Quello degli anni ’40 era un Giappone diverso, appena uscito dal feudalesimo con grande spirito di sacrificio e investito da una modernizzazione forzata. Quell’ammasso di isole, da fuori così instabili e così spesso vittime della violenza della Natura, è popolato evidentemente da un materiale umano diverso dagli altri: tanta empatia per gli amici, nessuna pietà per i nemici e i traditori. Ecco, Fosco Maraini sperimenta sulla sua pelle entrambi questi lati dello spirito nipponico: quel giorno del 1943, le stesse persone che per anni lo avevano salutato, lo avevano magistralmente riverito, si trasformarono in terribili aguzzini. Maraini e la sua famiglia furono trasferiti in un campo di concentramento a Nagoya, dove riuscirono a ottenere un trattamento quantomeno umano dai carcerieri esclusivamente perché Maraini si tagliò l’ultima falange del dito mignolo con una scure, lanciandola ai piedi dei comandanti del campo.

Ma Maraini non fu soltanto questo. Nato in una famiglia artistica per definizione, con un nonno costruttore e un padre scultore, sin da piccolo fu educato alla lingua inglese, grazie alla madre britannica. Ebbe insomma l’educazione che oggi si cerca di dare a un qualsiasi figlio europeo: lingua madre e inglese. Era avanti di cento anni, e questo precoce avvicinamento alla cultura e alla tradizione lo proiettò nel mondo della contemplazione, della curiosità e di un’instancabile ricerca. Maraini non poteva che diventare un esploratore del mondo e uno studioso dell’umanità.

Adesso facciamoci una domanda: perché si legge? Risposte: per imparare, per conoscere, per curiosità, per cercare soluzioni ai propri interrogativi, per esempio… Al giorno d’oggi, talvolta chi legge apre un romanzo anche perché spera che il protagonista stia affrontando la sua stessa crisi interiore, confermando la regola psicologica che, se si soffre in due, si soffre meno.

Ecco, Ore Giapponesi (Corbaccio) non è un romanzo e la specialità sta proprio in questo. Anche se non si fosse interessati al mondo giapponese, anche se non si sapesse niente delle culture orientali, Ore Giapponesi ha l’incredibile qualità di essere un’opera letteraria a tutto tondo e quindi, un’opera che si deve leggere. È un po’ come il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo: non era nata come opera letteraria, ma era scritta in maniera così limpida e così straordinaria da non poter non essere considerata tale.

Un’ulteriore specialità sta nella genesi e nella forma del racconto, che è strutturato quasi come un diario di viaggio: Maraini torna in Giappone dopo la guerra per girare un documentario e incontra vecchi amici, sia giapponesi sia italiani. Alcuni dei primi lo avevano aggredito, durante il periodo bellico, ma ora il confronto con loro è impietosamente impari e questi ex carcerieri sono sciupati, degradati, decaduti. E Maraini li descrive con molta empatia, senza alcun rancore, lasciandosi andare a narrazioni patetiche, ricche di bontà d’animo. Eppure, l’esposizione diaristica delle sue esperienze quotidiane molto spesso viene interrotta da quella che quelli bravi chiamerebbero “ecfrasi”, ovverosia la descrizione di ciò che lo circonda; dei profumi perfettamente delineati di ciò che il suo naso percepisce; delle varie sfumature con cui il sole illumina lo straordinario Monte Fuji; dell’unicità delle costruzioni in legno, ormai sparite per dare spazio al più resistente cemento, ma che in realtà ci rivelano tanto sull’accettazione della fugacità del tempo da parte della tradizione giapponese. Ancora: le stupefacenti descrizioni dei templi buddisti e di quelli shintoisti; rivelatori excursus storici, che pongono il Giappone su un piano metafisico molto più nobile rispetto a noi occidentali. Si pensi, a titolo esemplificativo, al ruolo della religione; a come Maraini tratteggia lo stile di vita dei vari monaci; alla perfetta descrizione del ruolo dei samurai, alle regole comportamentali che erano tenuti a seguire, al rispetto incondizionato che avevano per l’imperatore: solo così si può capire, banalmente, la mentalità dei combattenti nell’ultimo conflitto mondiale.

Insomma, aprire Ore Giapponesi di Fosco Maraini è una sensazione diversa, che provoca una forma di armonia ordinata e favorisce un approccio contemplativo alla lettura e per comprenderlo basta aprire causalmente il libro e scorrere con gli occhi il primo periodo che compare. Proviamo: «Fin da quando molti anni or sono visitai Kyoto per la prima volta mi accorsi che, se i templi della confessione Shingon affascinavano per un certo alone di mistero – il quale si rendeva più sottilmente suggestivo nella penombra delle cappelle, dove era facile rivivere brividi e voluttà dei lha-kang (“dimore degli dèi”) tibetani – e che, se i templi di confessione Tendai colpivano per un che di solenne e di severo, mentre quelli del più recente amidismo impressionavano per magnificenze quasi sempre immuni da volgarità, i templi dove si restava sul serio inondati dalla rivelazione d’una fragranza irresistibile del bello appartenevano al buddismo Zen, o ne avevano in qualche modo subíto l’influsso».

Così scrivono gli dèi. O semplicemente una persona che sa cosa dire. Si noti la pulizia formale di questo periodo, la cui lunghezza è degna di Cicerone: c’è un punto solo, alla fine; la prima virgola è posizionata perfettamente, in modo da interrompere dolcemente l’accelerazione della lettura; i periodi raggiungono un livello di subordinazione tipicamente eccessivo, ma in questo caso il lettore non si perde un attimo, perché al momento opportuno arriva la principale, che ci dice esattamente quello che ci deve dire. Maraini non è straordinario: Maraini, semplicemente, sa scrivere. Per questo è meraviglioso. Sa quale parola si deve usare per dire quello che ci vuole dire. Punto. Maraini scrive semplice; applica costantemente il brocardo catoniano più importante e al contempo più sottovalutato di sempre: «rem tene, verba sequentur», traducibile liberamente in «abbi ben chiaro cosa devi dire, le parole verranno da sé».

Parliamoci chiaro: vi sembra cosa da poco? In un mondo in cui si fa costantemente a gara a chi è più tormentato; a chi ha più sofferenze interiori; a chi risulta più cupo e nevrastenico? E la letteratura contemporanea è piena di opere del genere, in cui l’obiettivo sembra essere non far capire nulla al lettore, perché quello che lo scrittore prova è incomunicabile. Maraini al contrario comunica tutto. Poi la materia può non interessare e questo è perfettamente legittimo. Ma le qualità sintattiche, lessicali e grammaticali di Maraini non possono non colpire chi legge. Ore Giapponesi è un libro che si compra e si tiene nascosto, che si legge in intimità, che insegna la discrezione. È un rifugio contro la frenesia della vita e un manifesto per la bellezza.

di Alessandro Randi