Lucio Gava
pubblicato 6 anni fa in Letteratura

“Pastorale americana” alla morte di Roth

la lezione incomprensibile del male

“Pastorale americana” alla morte di Roth

Lo psicologismo potrebbe anche definirsi come la tendenza di certa narrativa a porre un accento eccessivo sull’aspetto psicologico visto come una deficienza, una volontà che tenta di introdurre del misticismo in una narrazione che invece vorrebbe stabilire i suoi cardini nelle conseguenze di causa ed effetto, di azione e reazione, senza soffermarsi troppo sui perché.
Inizia da subito Roth nell’impresa impossibile di tentare di spiegarsi il male come leggera e continua devianza dal bene, come fecero nei secoli passati i grandi impianti filosofici di Locke che nel XVII secolo coniò il termine teodicea, dal latino théos, dio e dike, giustizia, nei “Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male”. Nato dopo la letture del filosofo francese Pierre Bayle nel “Dizionario storico e critico”, tentò di spiegare la questione teologica principe, ovvero la contemporanea esistenza di Dio e del Male. Se Dio esiste da dove proviene il male? E se non esiste, da dove viene il bene? La questione trattata anche da San Agostino, dalla Bibbia, da Calvino e da Epicuro, alla cui spiegazione sono state prospettate varie ipotesi, dalla non onnipotenza divina alla capacità umana di ridestare il male, dalla non realtà del male alla sofferenza come peccato, intere religioni hanno fondato le basi della loro dottrina su questa questione che ha coinvolto anche Philip Roth, uno che ha fatto della penna la propria religione professata con gli strumenti laici di matrice ebraica della psicoanalisi e della asettica descrizione della realtà, male compreso; fino all’esaurimento nervoso datato primavera del 1987, dopo dieci anni ininterrotti di creatività in cui erano sorti alcuni dei suoi capolavori come il “Lamento di Portnoy”.
Il male parte da ciò che sembrerebbe il bene ovvero il benestare di una famiglia borghese americana di Newark, parte da un abbraccio troppo affettuoso dato dal padre, lo Svedese Seymour Levov, imprenditore guantaio, ex atleta idolatrato, marito di Miss New Jersey, Dawn Dwyer incorniciata dall’autore con questa massima: “Bisogna essere spietati e non aver mangiato manici di scopa per accettare la propria bellezza, accettare che offuschi ogni cosa sfruttandola nel modo migliore”.
Il male parte forse da un abbraccio eccessivo e arriva alla figlia dello Svedese e di Miss New Jersey, nata dal sogno americano che deraglia nella feroce contestazione paterna e sociale negli anni sessanta durante il dilagare della Guerra in Vietnam, diventando una placida terrorista.
Lo squallore della sua condizione disumana è descritto dal giaciglio in cui vive, dalla magrezza in cui conduce la sua esistenza. Ecco il male, il fallimento dell’età borghese, dell’America intera che sembra emergere trionfale ed irridente dal bene diffuso di prosperità. Spiegarsi il suo mutamento di segno è cosa che valica un romanzo, seppur premiato col Pulitzer nel 1998, e le capacità di un autore tra i più significativi del XIX secolo. Resta la funzione catartica del racconto, nulla più.
Quando il dieci novembre 2012 all’età di settantanove anni Roth annuncia pubblicamente in un’intervista ad una rivista francese di volersi separare dalla Scrittura, utilizzando una metafora del pugile Joe Louis (“Ho fatto del mio meglio con i mezzi a mia disposizione), non ce la faceva più a sopportare la frustrazione di scrivere cinque pagine per buttarne il più, la fatica costante di dover creare e la consapevolezza di aver già creato il meglio, come ricorda pure ne “I fatti. Autobiografia di un romanziere”.
Il suo addio definitivo alla Letteratura, fatto in sua vece dalle persone a lui care e dagli uffici stampa, perché per lui la vita è stata qualcosa di più che vivere, risale al 22 maggio scorso. Roth per tutta la vita restò chiuso una decine di ore al giorno nel suo studio a due passi dalla casa nel Connecticut. Quando ci salutò per via di un’insufficienza cardiaca, letale per il suo corpo ma, come qualche religione vorrebbe dimostrare, non letale per la sua anima, ci è sembrato che il male non fosse così pericoloso, se potevamo avere ancora tra noi le opere immortali di un autore mortale.

 

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