Federico Musardo
pubblicato 4 anni fa in Letteratura

«Pavese ha fatto scendere, un giorno, l’ombra del tempo». Lalla Romano su Leucò

«Pavese ha fatto scendere, un giorno, l’ombra del tempo». Lalla Romano su Leucò

Mentre scrive i Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese sente che sta elaborando un «nuovo stile». Un appunto del diario, steso a neanche un anno dal suicidio, prova che a suo avviso avevano rappresentato l’inizio di una «stagione», l’ultima:

Devi tener presente che negli anni ’43-’44-’45 tu sei rinato nell’isolamento e nella meditazione (di fatto, hai teorizzato e vissuto allora l’infanzia). Così si spiega la stagione aperta nel 46-47 con Leucò e il Compagno, e poi il Gallo e poi l’Estate e poi La luna e i falò ed ecc. ed ecc. (17 dicembre 1949).

All’uscita, però, sui Dialoghi era calato il silenzio della critica. Il libro avrà una dozzina di recensioni, a fronte delle decine scritte sugli altri suoi libri (su Il mestiere di vivere, pubblicato postumo, prendono pubblicamente posizione più di cento tra critici e giornalisti). Come confida lo stesso Pavese in una lettera del 3 dicembre 1947 ai coniugi Pinelli, i Dialoghi infatti «non piacciono a nessuno». Il giorno prima, sempre per lettera, Pavese ammette a Sibilla Aleramo che i «pochi consensi» ricevuti sono «tanto più preziosi» proprio perché si tratta di «un libro destinato a non piacere a nessuno» (2 dicembre 1947).

Fino ad allora effettivamente erano uscite sulla stampa soltanto le impressioni di un giovanissimo Italo Calvino e del professore Mario Untersteiner (sua la recensione più intelligente al volume).

Lalla Romano (1906-2001), tuttavia, a cui Pavese qualche anno prima da editore aveva commissionato la traduzione dei racconti di Flaubert, aveva apprezzato i Dialoghi al punto da eleggerli a chiave interpretativa di un altro suo libro, il dittico di Prima che il gallo canti, composto da Il carcere e da La casa in collina. Attraverso i «dialoghetti», infatti, secondo la scrittrice Pavese «ci ha dato addirittura, alla luce dei miti, la sua “filosofia”» («La Rassegna d’Italia», IV, n. 3, marzo 1949, pp. 306-8):

In Prima che il gallo canti ritroviamo quei temi e motivi calati nella narrazione, incarnati nel paesaggio e nelle creature, nella interiore storia del protagonista. Fino a giungere a una crisi: il canto del gallo. Questo dunque voleva dire il «portare alla luce i suoi miti» che Pavese indicò come «il compito della vita dell’uomo»?

E ancora:

Sull’orizzonte della poesia di Pavese c’è sempre, coll’ossessione di un’atmosfera antica e famigliare, una collina. Collina, o vigna – di Torino o delle Langhe native – e cielo, cielo «tenero e maturo» di Settembre, e cielo immemoriale dell’infanzia. Paesaggio dell’anima. Il suo. Ma la collina non fu sempre e soltanto freschezza. Lo è diventata, come gli olimpici che un tempo erano bestie. La collina era sensualità indistinta e caotica prima di rasserenarsi in contemplazione, essere decantata in ricordo, in parole. Ma anche così non è acquisita per sempre: il mito, per non morire, deve essere negato, violato. Solo a questo prezzo sarà conservato, sarà salvata la poesia. E sulla collina, sulla quale «il tempo non passa», Pavese ha fatto scendere, un giorno, l’ombra del tempo.

«I ricordi da altri libri miei sono giusti e illuminano veramente il mio mondo», le scriverà Pavese il 6 aprile dello stesso anno. «Saggi come il tuo mettono voglia che siano lunghi cento pagine. Sono certo che non mi piace soltanto perché parli di me. Anzi, leggendo dicevo “Ma com’è simpatico questo Pavese. Bisogna che mi decida a leggerlo a fondo e tutto”. Che altro chiedere?». «Rileggi nei Dialoghi con Leucò la Belva e avrai il mio stato», le confiderà ancora Pavese a quasi un anno preciso di distanza (20 aprile 1950).

Lalla Romano conosce lo scrittore dai tempi dell’università, anche se allora lo considerava «una figura soltanto simbolica, di studioso ispirato, bizzarro, nervosissimo»:

Lo vedevo ai lunghi tavoli della biblioteca di facoltà: si attorcigliava continuamente il ciuffo dei capelli. Non ci siamo mai parlati: lui era timido e io non ero certo incoraggiante. Del resto lui non guardava le ragazze. Ci siamo conosciuti dopo (Le parole che Cesare mi ha consegnato, «Corriere della Sera», Milano, 1º ottobre 1987).

Ad agosto Pavese si suicida. Sul frontespizio di una copia dei Dialoghi con Leucò lascia un messaggio d’addio che scatenerà le congetture più disparate sulle cause del gesto e sarà puntualmente disatteso dai critici:

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.

Lalla Romano tornerà a riflettere sul libro più caro all’autore e meno considerato dalla critica in un articolo uscito sul «Corriere della Sera». «Per me di gran lunga il suo libro più bello», «un libro che non ha avuto successo, suppongo per la particolare mentalità italiana che aborrisce gli scritti poetico-filosofici, le meditazioni», dirà dei Dialoghi. È come se, ricordando Pavese a cinquant’anni dalla morte, Lalla Romano abbia voluto finalmente recensirli:

È importante, per capire la figura di Pavese, leggere questi Dialoghi con Leucò. Spesso tragici, perché Pavese non ha mai scritto per fare letteratura, nel senso della bella pagina. Vi sono realtà che lo toccavano da vicino, nella sua vita. Come nel colloquio di Melagro col dio Ermete, in cui è adombrato il suo tragico rapporto con la madre. Pavese si è servito dei miti per dire cose molto forti, che non avrebbe potuto dire altrimenti. Di se stesso ha dunque parlato in questi Dialoghi, alcuni molto dolci, ma in genere quasi tutti tragici, come del resto sono i miti. È qui che ancora oggi va ritrovato, e riscoperto Pavese (Pavese, la penombra che abbiamo attraversato, «Corriere della Sera», 12 agosto 2000, p. 29).