Pessoa, la metempsicosi e il panteismo
Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in falsi riflessi un’unica anteriore realtà che non è nessuno ed è in tutti.
Così si presentava Fernando Pessoa, nel crepuscolo soffuso di una Lisbona tra fine ‘800 e inizio ‘900. A suggello dell’inarrestabile prolificazione di identità da cui il poeta si sentiva investito, Pessoa parlava di sé attraverso eteronimi. Non siamo certo di fronte all’iterato tentativo poetico di creare false personalità; se lo pseudonimo infatti -invalso fra artisti e intellettuali- racchiude nel proprio nocciolo la volontà di costruire un “io altro”, “un io bugiardo” e coscientemente falso, l’eteronimia assurge ad altro. Essa nasconde (e nel suo nascondere manifesta) l’intento di declinare la sostanza individuale di ciascuno in tutte le sue più intime e viscerali diramazioni: è la declinazione dell’Io nella sua forma plurale.
Mi sento vivere vite altrui, in me, incompletamente, come se il mio essere partecipasse di tutti gli uomini, incompletamente… in una somma di non-io sintetizzati in un io posticcio.
L’eco di questa sconfinata varietà di anime, di cui si fa portavoce Pessoa, affonda le sue radici nelle più antiche credenze fideistico-dottrinali del mondo orfico e greco. Si potrebbe osservare infatti nel fecondo parto di vite, di cui il poeta è grembo, il germe di una remota credenza: la metempsicosi. In linea con questa impalcatura teorica, l’anima trasmigrerebbe da un corpo all’altro, fino al suo completo distacco dalla materia. Lo spirito del poeta si sente plurimo come l’anima dopo essersi distaccata dal corpo e ,come questa, si reincarna e si vivifica attraversando il confine imprescindibile della morte. E se secondo la metempsicosi la morte combacia con l’affrancamento da tutto ciò che è materico, nell’universo “pessoiano” essa combacia con quel senso di alienazione dalla realtà – alienazione ora invocata, ora maledetta- di cui la poesia è il terreno fertile. In seguito all’estraniamento dall’immanenza e dalla contingenza, l’anima, ubriaca di poesia, si sente molteplice, sfaccettata,in continua gravidanza di sé. L’io del poeta si è diramato e si è coniugato a dismisura perché la poesia, come l’anima trasmigrante, è pellegrina e viaggiatrice e, una volta fecondata l’interiorità in cui si insedia, rende quest’ultima un suo prodotto esponenziale, potenzialmente infinito. Tuttavia non si riduce alla metempsicosi l’abissale poetica “pessoiana”. È lo stesso Pessoa a suggerire un ulteriore parallelismo gnoseologico con la sua identità:
come il panteista si sente albero e addirittura fiore, io mi sento vari esseri.
Mai come in questa visione panteistica di sé, il poeta cristallizza la metafora più calzante dell’anima inebriata dalla poesia. L’io poetico è quell’io che, esulando dal comune e monolitico determinismo, valica i confini della sua individualità e abbraccia un panteismo cosmico, un pluralismo universale che -sorvolando l’anello intermedio della filosofia pirandelliana- rende la sua anima una e centomila.
Articolo a cura di Letizia De Luca