Petrarca e la Chiarezza
il sonetto XXXII
Quanto piú m’avicino al giorno extremo
che l’umana miseria suol far breve,
piú veggio il tempo andar veloce et leve,
e ‘l mio di lui sperar fallace et scemo.
I’ dico a’ miei pensier’: Non molto andremo
d’amor parlando omai, ché ‘l duro et greve
terreno incarco come frescha neve
si va struggendo; onde noi pace avremo:
perché co llui cadrà quella speranza
che ne fe’ vaneggiar sí lungamente,
e ‘l riso e ‘l pianto, et la paura et l’ira;
sí vedrem chiaro poi come sovente
per le cose dubbiose altri s’avanza,
et come spesso indarno si sospira.
F. Petrarca, RVF XXXII.
La letteratura costituisce la musica dell’anima di ciascun autore. In particolare quella di Petrarca è una musica immanente che sente la necessità di raggiungere vette più alte, mete trascendenti. Con il sonetto succitato l’autore introduce la variante filosofica del sentimento che prova nei confronti di Laura. Egli si rende improvvisamente conto di non essere più parte integrante del mondo dell’amata, la quale è invece emblema della perfezione mondana, nel senso di “forma mondo” che conduce al “giorno estremo”: la morte.
Non molto andremo
d’amor parlando omai, ché ‘l duro et greve
terreno incarco come frescha neve si va struggendo;
Ecco che, dalla delusione e dalla considerazione dell’impermanenza del sentimento -che si distrugge come la neve fresca sotto il peso di un passo- scaturisce un tentativo di riscatto della propria spiritualità, in cui vi è quasi la considerazione della donna come diametralmente opposta a quella delle reminiscenze stilnovistiche ancora assai presenti nel Canzoniere; è unicamente corpo, non è più idea bensì forma tangibile, “forma vera”, per quanto il desiderio di lei risieda nell’animo. Dunque l’atteggiamento e il canto sono quelli di un uomo saturo dell’immanenza in cui le passioni lo incatenano, che contempla la fallacia dell’assoluto verso il quale, fino ad allora, aveva votato la propria esistenza, quello della passione. Esso, infatti, a confronto col giorno in cui il corpo lascerà allo spirito la possibilità di raggiungere la compiutezza, non ha più valore. L’uomo, umanissimo, Francesco mostra in questo sonetto una nuova possibilità: scostare il mondo, eradere le parvenze e “vedere più chiaro”. Pertanto contemplare la morte non apre un baratro bensì un’opportunità di distacco, come quella sperimentata in seguito all’ascesa sul Monte Ventoso (Familiares IV,1). Essa permette di vacare et videre (De otio religioso), di accettare il vuoto, il Niente-mondo, che è Dio. Ma costituisce anche l’opportunità per l’autore di sentirsi in salvo perché, in relazione al nulla-Dio, la sua musica rispetto a quella di Laura cambia: la donna rimane incatenata alla pienezza incompiuta del mondo mentre il poeta accarezza la vista di una Chiarezza più profonda, della Verità assoluta privata dalle vanità della civitas saeculi. Non erroneamente si può scorgere un’eco dell’Agostinismo Platonico cui si fa maggiormente riferimento nel secondo libro del Secretum. Infatti la verità sopraggiunge dopo aver reso deserto il campo visivo: il campo vuoto è la verità dell’esistenza. Evacuare l’anima e lasciar cadere gli accidenti del corpo conducono alla libertà dalle catene della passione ed infine a Dio. Il mondo intero si annienta nella chiarezza, si annichilisce e anche Laura è resa “breve”, irrilevante, rispetto al giorno ultimo della vita. Come ogni altro essere umano, Laura è soltanto “lieve incarto”, un involucro impermanente e perituro. In questo sonetto la distanza da ciò che la donna ha rappresentato fino ad allora è enorme e quasi impercorribile; la figura angelica che l’autore ha inventato si discrea, l’umano è quasi niente. Inoltre la figura del poeta è assimilabile a quella del filosofo Agostino che va in cerca del pensiero di Dio ed emerge una duplice considerazione del pensiero in quanto tale: da un lato vi è un pensiero che è pensato, che rappresenta per lo più un accidente aristotelico ed è quindi inabissato nella materia, per così dire, incapace di elevazione. Esso non conduce a nessuna meta celeste. Dall’altro si scorge un pensiero che pensa se stesso e considera la propria impermanenza, che attraversa le “cose dubbiose” per spalancare un orizzonte chiarissimo e imperituro, quello del divino.
La modernità di questa maniera di concepire la trascendenza è inattaccabile.
Circa settecento anni dopo, Simone Weil sosterrà in “la pesanteur et la grace” che l’unica possibilità di disfarsi della pesantezza degli accidenti umani è concepire e spportare il “vuoto nel pensiero di se stessi”. Ma definire e, soprattutto, tollerare il peso del vuoto non è cosa da nulla, infatti è necessario tendere alla grazia, desiderarla, e, di conseguenza, spogliarsi dell’idea di sovranità immaginaria sul mondo propria di ogni uomo. Assecondando quel noto ammonimento agostiniano, De vera religione, ( cfr.I, Giovanni, II, 15-16): “Non vogliate amare il mondo né le cose che sono del mondo; poiché tutto ciò che è nel mondo è concupiscienza della carne, concupiscienza degli occhi e ambizione del secolo”. La Weil afferma che la Grazia agisce, colmando l’animo umano, soltanto se questo è vacuo e pronto ad accoglierla. Accettare di vacare, per non essere oppressi dalla pesantezza ,è un atto che conduce al sovrannaturale, che avvicina a Dio, poiché costringe a concedere qualcosa senza un’immediata ricompensa materiale. Per avere il coraggio di discrearsi è necessario amare la Verità e, attraverso quest’ultima eterna ricompensa, la grazia permette di sopportare la morte, per cosi dire, prima (quella del corpo, cfr. Laudes Creaturarum, San Francesco d’Assisi). La chiarezza e la conoscenza, per la Weil, stanno dalla parte della morte cosiccome per Petrarca. In conclusione vediamo che il sonetto preso in esame è del tutto votato all’indagine della conseguenza della morte dei pensieri: la consapevolezza improvvisa di un errore presente nel mondo amoroso. Quindi il vedere chiaro non è altro che il capire quanto sia fallace la speranza di eternare la forma. È come se Petrarca, dall’alto della cima del Monte Ventoso, ci ammonisse che l’amore è un breve sogno, un’astrazione intrisa di corporeità destinata a disintegrarsi e per questo è necessario che ciascun uomo contempli in sé l’esistenza del vuoto, l’apertura di un varco, per raggiungere, attraversando il nulla, un orizzonte di Niente e di Grazia che ci renda compiuti. Dunque è questa l’innovazione del poeta: la discreazione totale induce al vuoto, ad un’assenza completa di umano, ma ciò non è un limite. Ciò è l’unico modo di rendere tangibile l’ interiorità umana. Entrare in comunione col Nulla è l’unica forma di immortalità possibile.