Pirandello e la critica alla modernità
Geniale drammaturgo e artista profondamente innovativo, Luigi Pirandello, con la sua originalissima critica alla modernità e all’umana ipocrisia, domina il panorama letterario italiano del primo Novecento.
La sua produzione è eterogenea, nelle forme e nei temi: spazia dalla novellistica al romanzo, dalla poesia al dramma teatrale, e tocca ogni campo della modernità, con tinte sempre personalissime. Chiariamo subito un punto fondamentale: Pirandello è un inguaribile pessimista. La sua esperienza di vita è invero profondamente negativa, segnata prima dal rapporto conflittuale con il padre e poi dalla pazzia della moglie – che finirà persino in manicomio –, e in generale vessata da continue e perturbanti sfortune personali, soprattutto in campo economico. Questi fattori, uniti a una mai sopita inquietudine, lo porteranno all’elaborazione di una visione esistenziale estremamente pessimistica: l’uomo si affatica da sempre a dare un significato alla propria esistenza ma il suo è uno sforzo vano, perché la vita è un’enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai, e di fronte alla natura – concepita sempre, sull’orma di Leopardi, come una matrigna altera e indifferente – gli uomini non sono più importanti dei ragni, delle lumache o di un qualsiasi altro animale. Gli ideali? Un auto-inganno che ciascuno insegue per fuggire l’unica, lampante evidenza: tutto è finzione e un’idea vale un’altra, giacché sono tutte quante ben lontane dalla verità. Sono false le convenzioni sociali, forzati i rapporti con gli altri e fintamente grottesche le più disparate convinzioni personali: sono forme, fallaci e mendaci, in cui cerchiamo di incatenare la vita, perché essa possa apparirci più comprensibile e meno caotica. Da qui la scissione dell’io pirandelliano: l’individuo che da persona viva e autentica diventa burattino di se stesso e degli altri, niente più che un misero personaggio pronto ad indossare maschere sempre diverse per ogni evenienza, disposto a snaturarsi e ad alienarsi nell’ansia di apparire, e di non sentirsi inutile e rifiutato. Siamo tutti uno, nessuno e centomila.
A questo gioco di coazione e finzione, a questa perpetua commedia Pirandello risponde con una sconsolata ironia. Ecco dunque l’origine della sua poetica, appunto detta dell’umorismo: l’autore, cosciente della grande e sciocca mascherata portata avanti dall’umanità tutta, non può che reagire con una sonora e sincera risata, mai gratuita e disinteressata ma sempre amara e soppesata – è il sentimento del contrario che subentra al suo avvertimento, laddove il contrario è proprio quel sovvertimento della realtà e della natura perennemente tentato dagli uomini.
Come dicevo in apertura, Pirandello si distingue dai suoi contemporanei per l’acutissima analisi che fa dell’individuo e della società dei suoi tempi – l’unico che compie lo stesso processo, anche se con esiti, modi e intenti piuttosto diversi, è forse Italo Svevo.
Una visione, quella pirandelliana, che trova decisivi punti di contatto con la nostra contemporaneità.
Questa profonda critica della modernità trova un primo spazio ne Il fu Mattia Pascal (1904), dove il protagonista è
appunto Mattia, un inetto che prova a rompere la falsità della forma assumendo un’altra identità – diventa Adriano Meis –, ma che alla fine fallirà nel tentativo, ritrovandosi ancora più svuotato e infelice.
I punti del romanzo per noi interessanti sono numerosi. Vi è il “Maledetto sia Copernico!” di Mattia, che si lamenta perché da quando lo scienziato polacco ha scoperto che la Terra non è al centro dell’universo, l’uomo non può più ignorare di essere del tutto impotente di fronte alla natura: l’antropocentrismo non può più esistere. Particolarmente famoso poi è l’episodio del canarino in gabbia, quando Adriano – cioè Mattia – prova vanamente a comunicare con l’uccellino, che invece è sordo ai suoi richiami: non solo la natura è estranea all’uomo ma pure esso si illude, nella sua mania di meccanizzare e assoggettare ogni cosa, di poterla “ingabbiare” e controllare. Pirandello ci parla persino della crisi delle ideologie. È la lanterninosofia del pensionante Anselmo Paleari, secondo il quale qualsiasi illusione umana è un lanternino che proietta una luce ingannevole, luce che a volte può essere tratta da un lanternone, ovvero fondata su un’ideologia; ma il tempo di Adriano e del signor Paleari non ha alcun lanternone: tutto è soggettivo e relativo – e pensare il contrario significa ingannarsi.
La disillusione di Pirandello si fa ancora più lampante in un preciso passo del romanzo: siamo al cap.IX; Mattia-Adriano arriva a Milano e sperimenta, lui che ha sempre vissuto in campagna, il caos della città moderna. L’impressione è subito di profonda confusione:
La vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolío di gente. E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m’intronavano.
La scienza ha l’illusione di rendere migliore l’esistenza dell’uomo, e invece la complica e insieme la impoverisce:
«Oh perché gli uomini,» domandavo a me stesso, smaniosamente, «si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l’uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d’arricchire l’umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole?»
Infine Adriano incontra un signore tutto contento perché adesso col tram, in pochi minuti e con due soldini, può girare tutta Milano. Ma – pensa il protagonista – quest’uomo non si rende conto che spende tutto quello che guadagna per una gioia vana, e per sentirsi ancora più intronato?
Difficile non vedere, in queste precise e sconsolate parole, anche il nostro tempo: la nostra realtà cittadina, con le sue grandi concentrazioni di persone e il suo traffico incessante, il suo grigiore e i suoi rumori assordanti; il mito neo-positivistico della scienza come motore dell’umanità e fonte di ogni progresso; il nostro vivere quotidiano, sempre più caotico e svuotato, votato a una tecnologia che di certo non ci ha reso più felici ma piuttosto più stupidi.
In Quaderni di Serafino Gubbio Operatore (1925) assistiamo a un inasprimento del pensiero pirandelliano. Il protagonista, Serafino Gubbio, è operatore presso la casa cinematografica Kosmograph. Il suo lavoro? Girare la
manovella della macchina da presa, senza sosta. Un lavoro meccanico e ripetitivo, un’immersione continua nel mondo delle macchine: Serafino è un uomo alienato dal suo lavoro, e poco a poco ne diventa persino schiavo:
L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse. Viva la macchina che meccanizza la vita!
Serafino si sente trascinato dalla mostruosa gestazione meccanica che è diventata la sua vita e quella di tutti gli altri. Tutto è troppo veloce:
Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano, cioè serve alla macchina. […] Si va, si vola. E il vento della corsa dà un’ansia vigile ilare e acuta e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori è un balenio continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare. Il battito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie.
Ogni rumore diventa un ronzio, e in nessun momento ci si può fermare a pensare e a considerare cosa sia divenuta la propria vita: il mito futurista della velocità è palesemente rovesciato e parodiato. L’uomo si perde. Lo sviluppo tecnologico è un gorgo inquietante.
Ad un certo punto un passante chiede a Serafino se per il suo lavoro, se a girare una manovella, non sarebbe più efficiente una macchina. Ancora non si può, dice il protagonista, che aggiunge:
Non dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta – anche questa macchinetta, come altre macchinette, girerà da sé. Ma che cosa farà poi l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere.
La vicenda si conclude nel peggiore dei modi. Serafino è a tal punto schiavizzato dalla macchina da presa, che filma, sconvolto eppure impotente, la casuale morte dell’attrice Vania Nestoroff sulla scena. Non riesce a reagire, e dunque continua a girare la manovella, meccanicamente. La disumanizzazione è infine compiuta: Serafino è ora impassibile e privo di emozioni, ridotto al silenzio di cosa, e quindi incapace di proferire parola e di fare alcunché se non il suo lavoro di cine-operatore.
Così, con questo triste epilogo, si chiude la storia di Serafino: nella sconfitta dell’uomo e nella vittoria della tecnologia e dell’industria. Laddove trionfa la macchina, perisce l’umanità o meglio, l’anima si dissolve e scompare. In questo scenario, anche la parola – nostra caratteristica peculiare – è distrutta: le persone e le masse sono sempre più silenziose, perdute nella loro alienazione. Vi ricorda qualcosa?
Pirandello ci dice che la forma ha infine vinto sulla vita, e che il nostro quotidiano teatro di falsità, futili svaghi e folli corse verso il futuro non potrà mai donarci la felicità.
Meglio dunque fermarsi a riflettere e magari attardarsi sul sentiero della ragione, piuttosto che correre alla cieca verso l’oscurità e perdersi definitivamente, soffocati dalle proprie maschere, soli e infelici.