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pubblicato 2 anni fa in Letteratura

Poetica della stanza, linguaggio e identità: “The Room” di Harold Pinter

Poetica della stanza, linguaggio e identità: “The Room” di Harold Pinter

Se qualcuno te lo chiede, diglielo pure, Bert, che io qui ci sto più che bene. Stiamo in pace, siamo felici. E che anche tu sei contento qui. Non sono neanche tanti piani, quando sali da giù. Nessuno ci disturba. Nessuno ci dà noia.

Quattro pareti, un singolo ambiente, una porta: tanto basta a Harold Pinter (1930-2008) per realizzare all’interno di una stanza – parola magica nel cosmo del drammaturgo – un’opera completa in grado di attraversare l’animo umano, paure e comportamenti individuali e universali.

Un teatro primitivo nell’ambientazione, dunque, una struttura elementare dal gusto preletterario che si carica però di valenze simboliche: la stanza come luogo rassicurante, nido di calore e luce, in contrapposizione al freddo e al buio dell’esterno minaccioso. La porta, confine limite tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, assume tutta la tensione incombente di qualcosa che preme per (ri)entrare nelle vite dei protagonisti.

Se la stanza rappresenta un paradiso artificiale per i personaggi pinteriani, la porta si qualifica come connessione (negata) con un passato che cerca di svincolarsi dalla dimensione di alterità in cui è stato relegato e chiede a gran voce di entrare. Si potrebbe dire che a convivere in antinomia siano il desiderio di conservazione di un forzato ma rincuorante status quo – la stanza – e un’identità perduta e rifiutata – il passato, l’esterno – in grado di sgretolare quell’illusoria fortezza. I tentativi di disporre delle difese rispetto all’urto con la realtà si rivelano inefficaci, oltre che pericolosi: Pinter, che non scinde mai l’arte letteraria dall’esperienza personale, conosce e quindi rappresenta con cura i rischi emotivi insiti nell’isolamento dalla società, dalla paranoia alla xenofobia, temi caldi nell’Inghilterra degli anni Cinquanta.

In The Room, opera d’esordio del 1957, la signora Rose vive in un ritiro quasi sepolcrale con il compagno Bert. Il contatto con il mondo avviene solo attraverso una piccola finestra disposta al centro della scena, punto di fuga prospettico, verso cui la protagonista rivolge nervosamente lo sguardo, scostando la tenda. Se il marito non proferisce parola, lei parla senza sosta, in modo compulsivo, insistendo sulla sicurezza della loro dimora e tradendo un’agitazione smisurata nei confronti dell’esterno e, ancor di più, del misterioso e oscuro seminterrato del palazzo: «Ho guardato fuori prima. E mi è bastato. Non c’era un’anima in giro. Senti il vento? (Si siede sulla sedia a dondolo) Io non l’ho mai visto. Chi sarà? Chi può essere che vive qui sotto? Bisogna che chieda. Tanto vale saperlo, Bert. Chiunque sia non può stare molto comodo».

La frenesia verbale di Rose altro non è che una maschera per velare una realtà disposta invece a rivelarsi, in Pinter, solo nella nudità del silenzio, epurato dal chiacchiericcio superfluo e strumentale dell’uomo.

Caratterizzato dalla non consequenzialità (il non-sequitur), il dialogo dei personaggi pinteriani è emblema della ripetitività e dell’assenza di logica della comunicazione quotidiana, fatta di stratagemmi orientati a evadere dal confronto con l’altro. Pinter porta così in scena un realismo estremo: la conversazione riproduce lucidamente – e con asciutta ironia – la prevaricazione, l’assenza di ascolto, l’indifferenza e la superficialità di un linguaggio che diventa un’arma di nascondimento di sé o un gioco perverso di sottile manipolazione altrui. Le parole sono il filo spinato di una recinzione eretta a protezione dell’io e in Pinter, come in Beckett, le persone rimangono silenti per evitare la parola e parlano per evitare il silenzio.

Il realismo risiede tuttavia anche nell’assenza di retroscena del passato dei protagonisti, che resta il grande interrogativo del teatro pinteriano, polo magnetico di attrazione della suspense: più acuta è l’esperienza, meno articolata sarà la sua espressione. La scelta di non fornire coordinate relative ai personaggi è coerente con la consapevolezza dell’autore che nella vita vera esiste un radicato problema di difficoltà della verifica rispetto ai moventi che animano le azioni degli esseri umani, la cui psicologia è complessa e spesso contraddittoria: «Non vi è una rigida distinzione tra ciò che è reale e ciò che è irreale, tra ciò che è vero e ciò che è falso. Una cosa non è necessariamente vera o falsa; essa può essere vera e falsa insieme».

Leggere un testo di Pinter equivale ad accettare l’insondabilità della verità totale e prepararsi a imprevedibili rivolgimenti perché niente è mai come sembra. In The Room, infatti, la reclusione apparentemente ermetica della protagonista mostra presto la sua permeabilità: a interrompere un fittizio idillio di tranquillità, secondo il leitmotiv «stiamo in pace, siamo felici», sono degli invasori (‘intruders’) dello spazio protetto, figure funzionali a mettere i personaggi a confronto con la loro identità.

Prima il signor Kidd, proprietario del palazzo, poi una giovane coppia alla ricerca di un appartamento, i signori Sands, portano a inverarsi le inquietudini più profonde di Rose, preparando il terreno al finale della pièce. Se i signori Sands, avvisati da un sinistro sconosciuto sulla disponibilità della stanza di Rose e Bert, danno forma alla minaccia di espropriazione, la seconda incursione del signor Kidd costringe Rose a un riconoscimento rivelatore, preannunciando un incontro troppo a lungo rimandato proprio con l’enigmatico inquilino del seminterrato, informatore della coppia.

L’ingresso in scena di Riley, uomo nero cieco che si rivolge alla protagonista chiamandola ‘Sal’ e intimandole di tornare a casa, rappresenta il punto più alto dell’opera: Rose, che all’inizio aggredisce verbalmente l’invasore del suo santuario, nega ogni parentela fino a che, alzandosi in piedi per toccare il volto dell’uomo, tace e nel silenzio lo accoglie. È il momento di massima tensione, in cui la reclusa accetta di aprirsi all’esterno, stabilendo un contatto con il suo salvatore. Il desiderio di mantenimento è per un istante superato dall’ansia di rinnovamento, sostenuta da un’eloquente pausa, che libera i personaggi dalle menzogne del linguaggio. È proprio in questo silenzio che agisce Bert, rientrato in casa, colpendo e tramortendo Riley con cruda violenza. Rose, pietrificata, può solo esclamare: «Non ci vedo. Non ci vedo. Non ci vedo». Cala il buio, si chiude il sipario.

L’abbattimento brutale di Riley, che porta con sé l’eco delle violenze perpetrate ai danni delle comunità straniere, è l’unico modo per ristabilire quello status quo che stava per essere irrimediabilmente alterato e l’emblematica cecità di Rose costituisce la negazione, somatizzata, di vedere il proprio senso di colpa.

La crisi della stanza diventa, per estensione, la crisi dell’io scisso tra protezione dall’estraneo e anelito al contatto, tra salvaguardia e brama di trasformazione. Le quattro mura, per definizione insufficienti a nutrire l’anima umana, assumono la durezza di una prigionia fisica e mentale in grado di generare solo sospetto e aggressività.

Le opere di Pinter sono complesse e stratificate, richiedono una lettura obliqua e spesso lasciano un senso di irritazione e sconcerto. È questo l’obiettivo del drammaturgo, che rinuncia alle vesti del profeta e alla chiarezza dei precetti morali a vantaggio del conflitto e del dubbio, perché il significato, nella vita come nel teatro, emerge per rapidi bagliori. A patto di non accontentarsi e di non ritenersi mai arrivati: «Ogni opera, per me, era un tipo diverso di fallimento. Ed è questo, credo, che mi ha spinto a scrivere la successiva».

di Barbara Balestrieri