Qualche riflessione su “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia” di Leonardo Sciascia
sulle tracce di un sogno troppo reale
Intercalato nel trittico semisaggistico di ricostruzione storico-giudiziaria composto da La scomparsa di Majorana (1975), I Pugnalatori (1976) e L’affaire Moro (1978), Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, pubblicato nel 1977 (ora Adelphi), è sicuramente il romanzo più singolare e personale di Leonardo Sciascia.
Costruito come una parodia interiorizzata, consapevole e dunque riuscita del “conte philosophique” di matrice illuministica, il Candido di Sciascia prende esplicitamente a modello – ma è un modello rovesciato, svuotato – il suo sfortunato e ottimista antenato settecentesco, di cui Voltaire si servì per smentire categoricamente l’ipotesi leibniziana del «migliore dei mondi possibili». Il registro ironico è quindi inevitabile, ma l’altezza intellettuale-filosofica dell’esempio volterriano viene scorciata e di molto, in virtù di una leggerezza di composizione e scrittura capace di tessere una fitta ragnatela di rimandi più o meno allusivi e metaletterari (oltre Voltaire, Shakespeare, Hugo, Molière, Stendhal, Bonnefoy), sotto la cui egida giocare e scommettere le sorti magiche e fantasmagoriche della vicenda raccontata.
Grazie a un distacco autoriale che conferisce la giusta ed elastica lievità al compiersi della trama, Candido si sviluppa e diviene, nel farsi e disfarsi dei suoi avvenimenti paradossali quanto verosimili, favola amara, ilare, drammaticamente sarcastica, in cui i brevi capitoletti formano le tessere vivide e colorite di un affresco esistenziale beffardo, bizzarro ed insolito.
Fratello maggiore di quel Palomar calviniano che verrà alla luce sei anni dopo, Candido Munafò, protagonista del libricino, è un essere umano eccezionale, nel senso che eccede e tracima lo status quo, il senso comune e la meschinità mediocre di chi lo circonda, a partire dai suoi genitori e dai suoi famigliari. Abbandonato e malvisto da tutti, ma felice proprio grazie alla sua così evidente, naturale e genuina franchezza, dono dello spirito più che semplice tratto caratteristico, Candido intraprende, all’ombra dei sovvertimenti e dei capovolgimenti improvvisi propri della Storia, un lento e graduale processo di schiarimento della sua coscienza e consapevolezza.
Avvolto da un alone surreale e onirico, mezzo diavolo e mezzo mostro a detta dei suoi cari, Candido va ricercando sino a possederla per intero una verità tutta personale e quindi più che mai universale e si posa sulle cose che lo interessano e coinvolgono senza però lasciare impronte, come i suoi occhi fugaci e attenti sembrano disegnare con tratti abbozzati i confini sinuosi dei panorami intravisti.
Nuovo principe Myskin, il personaggio sciasciano è disinteressato alle questioni dei “grandi”, ma le osserva con il più puro ed ingenuo stupore, incapace com’è di elaborare e far sue le sottigliezze artificiose dei loro comportamenti subdoli e malcelati, le beghe quotidiane e i livori futili. Una curiosità innata e vorace lo distingue sin da piccolo dall’ignoranza dei più e spiazza, turba e spaventa l’indifferenza spossante di chi lo vorrebbe matto o idiota, rendendolo scomodo persino alle onorate e maestose istituzioni politiche, religiose e sociali – il Partito, la Chiesa, la Famiglia – che ne accompagnano la crescita e vorrebbero a ogni piè sospinto schedarlo, accusarlo ed espellerlo perché intimorite e offese dalla sua innaturale irriducibilità alla misura, al prestabilito e al consueto.
Candido ha infatti un suo modo peculiare di formarsi nel mondo, di offrirsi e presentarsi agli occhi del mondo, sempre in tralice, di soppiatto, osservando obliquamente gli eventi scorrere al suo fianco. I fondamentali stravolgimenti storici, riflessi opachi nella bellezza arcaica della Sicilia sempre uguale a sé stessa, sembrano solamente echi lontani di lotte e rivoluzioni davvero impossibili da attuare, mentre gli ideali nuovi e combattivi, proclamati savi e giusti, si trasformano in discorsi astrusi e polverosi, in cui i concetti si rincorrono senza trovar pace e attinenza, e perciò gli anni, i moti e gli uomini invece che imporsi e trionfare, emergono unicamente a tratti, labili e indefiniti, come facendo capolino dal fondo translucido di un bicchiere.
Lontano dal giogo delle imposizioni sociali e dai retaggi atavici di malsane tradizioni, lo sguardo fresco e indagatore di Candido, dardo improvviso e luminoso, arriva invece ad intravedere immediatamente il centro focale delle persone, lo scheletro che vi si nasconde sotto, a sondare il nocciolo inossidabile di ogni situazione o contesto che si vorrebbe difficile e ingarbugliato per comodità e vaniloquio. Incapace di sostare sotto l’ala oscura dei segreti e dei misfatti, Candido rivendica per sé la luce abbacinante del meriggio, che incanta e inquieta tanto pare irreale e pervasiva, e la purezza incorrotta della ragione e del sentimento primo e inscalfibile.
Tra sogno e follia, Candido è suo malgrado in lotta contro la normalità asfittica, degradata e degradante dell’universo circostante, perché incapace di sottostare al reclamo petulante e anacronistico di chi comanda ordine e obbedienza – ai dogmi, alle fedi, al volere popolare – e il suo relativo straniamento dalle cose si configura in realtà come un vero, unico ed originale atto di comunione e vicinanza alle cose stesse, spogliate finalmente dalle apparenze fumose di chi non sa cosa farsene della verità e della schiettezza, e rimaste dunque nude e rivelatrici. Per Candido i nomi appartengono ai significati e i significati ai nomi, la morale è una semplice intenzione di amore, più facile a farsi che a dirsi, un afflato di generosità e giustizia che non è necessario imparare sui libri o organizzare a tavolino nei congressi e nelle sacrestie. Con uno stile agile, lucido e affilato, sorretto da un’elaborata vis comica e da un divertito e disilluso compiacimento – segnale autobiografico non troppo velato di un evidente ripensamento politico –, Sciascia plana dolcemente, attraverso i gesti, le parole e i comportamenti del suo Candido, sui quesiti irrisolti, paradossali e tenebrosi posti dalla Storia, delineando con impietoso candore lo spaccato d’un Italia che si crede già moderna ed è invece ancora anziana, malversata, scialacquata, irretita da tranelli e sotterfugi, e di cui la Sicilia, da sempre terra luttuosa e nostalgica, è forse la principale cartina tornasole, la figlia odiata e prediletta.
Eppure, oltre i detti e i contraddetti che si affannano e si inseguono, si staglia la figura di Candido, tanto vera e al contempo talmente romanzescamente immaginata da divenir più forte della realtà, frutto d’un sogno magari, d’un sogno itinerante di un siciliano a Parigi, i cui pensieri si stagliano netti e immacolati sull’orizzonte incerto e preoccupante del futuro, in virtù di una saldezza e spontaneità di idea e azione che non sfuma mai nell’aleatorietà vaga e pericolosa dell’incertezza, del dubbio, della maldicenza, del raggiro, di ogni matassa intricata e destinata a restare tale per ignavia, compiacenza e viltà.
di Niccolò Amelii