Quando il cinema discute del cinema
breve storia del meta-cinema e una riflessione su Boogie Nights di Paul Thomas Anderson
Quasi tutti i registi definibili come autori nel panorama del cinema hollywoodiano ed europeo hanno avuto nella loro filmografia, almeno una volta, un esempio di riflessione aperta sul cinema in sé, optando per il racconto metacinematografico, il cui primo esempio potrebbe essere quello di Uncle John At The Movie Picture (1902) di Edwin S. Porter in cui la macchina da presa inquadrava uno schermo cinematografico e l’emulazione o la reazione di “zio John” alle immagini che esso rifletteva. L’esperimento venne ripetuto anche dal regista-attore slapstick Buster Keaton con il film Sherlock Jr. (1924) in cui un proiezionista si addormenta e si ritrova a sognare il film che stava proiettando in sala e a viverne la storia in prima persona, cambiandone le sorti. Prima della transizione dal cinema muto a quello sonoro, l’esempio cardine di cinema metariflessivo è quello di Dziga Vertov, non solo regista ma anche teorico del cinema d’avanguardia sovietico, con L’uomo con la camera da presa del 1929 in cui mette appunto la sua teoria secondo cui il cineocchio, ovvero la macchina da presa, tramite la ripresa frammentata della realtà e l’abilità del montaggio, riusciva a indagare e restituire l’oggettività del reale. Con l’avvento del cinema sonoro e soprattutto della nouvelle vague francese, la riflessione del cinema sul cinema si riproduce nei film di autori come Jean-Luc Godard e il suo Les Mespris (Il Disprezzo) del 1963 o come l’italiano Federico Fellini con il suo 8 ½ dello stesso anno, ma anche nel cinema di Francois Truffaut dieci anni dopo con La Nuit Americane (Effetto Notte).
Quando il cinema si apre alla modernità, gli europei decidono di mostrare con tutto l’impegno e l’estro possibile il modo in cui il cinema si genera, i suoi retroscena, le sue teorie. A differenza del cinema europeo, il cinema americano, solo con l’avvento degli anni Ottanta, di internet e del digitale, si è lasciato alle spalle il prototipo classico dell’uomo forte, potente, capace di cavarsela in ogni situazione, lasciando spazio a un più realistico uomo postmoderno desolato, debole, immerso nel cinema digitale che per natura è frammentato in file e sequenze numeriche binarie e che riflette su sé stesso in maniera completamente distorta: come nel caso delle realtà di Martin Scorsese in Taxi Driver del 1976, oppure Blue Velvet (Velluto Blu) di David Lynch del 1986. L’America decide di aprirsi ai racconti sulla post-modernità che guardano al marcio e ai retroscena più bui e lividi di Hollywood: in questo panorama si inserisce uno dei film più discussi del genio Paul Thomas Anderson, ovvero Boogie Nights, secondo film del regista, del 1997, la cui vicenda ruota intorno alla trasformazione di un giovane cameriere, Eddie Adams (interpretato da un giovane Mark Wahlberg), in un attore porno grazie alle sue ‘enormi’ doti notate per caso dal regista di porno Jack Horner (Burt Reynolds), durante una serata nel locale. La vicenda è fittizia nella rappresentazione ma viene ispirata dalla storia di un attore porno cui Paul Thomas Anderson dedicò un mockumentary del 1988, intitolato The Dirk Diggler Story. La riflessione metacinematografica di Paul Thomas Anderson è sulla pornografia, sullo scalpore che suscita il sesso e sul circolo di denaro e successo che offre agli addetti ai lavori. Il racconto è cadenzato da una irriverente ironia, soprattutto nei momenti in cui il protagonista guarda sé stesso come un vero attore hollywoodiano: si impegna nell’imparare le poche battute di dialogo che antecedono i rapporti sessuali, vuole essere chiamato con nome d’arte (Dirk Diggler), chiede di ripetere le scene nel caso in cui siano andate male e porta un grande rispetto nei confronti delle attrici con le quali deve avere rapporti sessuali.
L’aspetto metacinematografico del film non si ferma solamente ai retroscena delle riprese ma mostra allo spettatore tutto ciò che ruota intorno alla filiera dello spettacolo: le scelte registiche dettate da motivazioni produttive, il lavoro della critica, la partecipazione e la premiazione durante i festival cinematografici, le interviste televisive, la questione dello stardom e del passaggio dalla sala cinematografica all’home video, ma anche le accuse dell’opinione pubblica, i festini a base di alcool e droghe, gli arresti e le violenze. Non solo, si mostra anche in un momento in cui la camera riesce ad entrare, squarciando l’interno, di una seconda macchina da presa che riprende il primo amplesso di Dirk Diggler: l’immagine dei due attori si capovolge e si rimpicciolisce su quello che è lo specchio inclinato di 45° che serve a riflettere l’immagine ripresa e predisporla su pellicola così come si guarda nella realtà. Il film riflette anche sulla natura scopofila, ovvero su quel piacere umano perverso di guardare le nudità altrui senza essere scoperti: in questo caso il regista mette lo spettatore nei panni di un voyeur che osserva il seno, la vagina, le cosce, i piedi di una bellissima Rollerblade girl (interpretata da una giovane ventisettenne Heather Graham) oppure la lunga chioma fiammeggiante, il corpo stretto in latex rosso di una cocainomane Amber Waves (interpretata da un’accattivante ed erotica Julian Moore). Tale desiderio scopofilo però non viene soddisfatto quando si tratta del protagonista: il pene enorme, il suo vero talento sono nascosti e non disponibili allo sguardo del pubblico, se non nell’ultima inquadratura del film, sotto il suo vociare
sono una stella, sono una grandissima stella luminosa.
Tutti i personaggi rappresentati sono caratterizzati negativamente: il protagonista fallito, senza istruzione, il cui unico talento è avere un pene enorme, la madre che lo fa sentire perennemente in colpa per le sue mancanze, il produttore accusato di pedopornografia, un aiuto regista colpevole di un omicidio-suicidio, il regista pronto a sostituire Dirk con un altro attore giovane e più prestante. In questo triste spettacolo decadente, reso spettacolare da movimenti di macchina convulsi, rapidi, panoramiche a schiaffo e lunghi piani sequenza (il più memorabile quello di tre minuti che apre la storia) girati con la steadicam, vera rivoluzione di fine secolo, si fa spazio il talento di un regista, all’epoca solo ventisettenne, Paul Thomas Anderson che ci ha regalato negli ultimi anni di perle brillanti del cinema come Magnolia, There Will Be Blood (Il Petroliere) o il più recente Phantom Thread (Il Filo Nascosto), riuscendosi ad inserire nell’alveo dei registi americani più acclamati e desiderati nel mondo.
di Cristian Viteritti