Quei poveracci dei gallinazos
Gli avvoltoi senza piume di Julio Ramón Ribeyro
Julio Ramón Ribeyro (1929-94) è uno scrittore peruviano conosciuto soprattutto per i suoi brevi racconti. Visse la giovinezza a Lima, dove fu afflitto dalla prematura morte del padre che portò anche instabilità economica per la sua famiglia. La raccolta di otto racconti Los gallinazos sin plumas (Gli avvoltoi senza piume), prima opera pubblicata dallo scrittore, risale al 1955 e prende il nome da una piccola storia in cui i bambini Efraín e Enrique, gli avvoltoi senza piume, quando sorge l’alba, setacciano l’immondizia alla ricerca di avanzi per il disumano Don Santos, propietario di un gigantesco e sempre affamato maiale di nome Pascual.
Riberyo a quell’altezza cronologica risiede nel Barrio Latino di Parigi per studiare all’università e, forse andando con il ricordo alla sua infanzia peruviana – anche se proveniva da una famiglia della classe media, allestisce otto brevi racconti ambientati nel rancido sottosuolo di una città peruviana senza nome.
Efraín e Enrique sono bambini abbandonati a loro stessi in un contesto malato e insalubre, di grande disagio.
Non sono gli unici. In altri cortili, in altri sobborghi qualcuno ha dato la sveglia e si sono alzati in molti. Chi porta delle latte, chi degli scatoloni di cartone, a volte basta un giornale vecchio. Senza conoscersi formano una specie di organizzazione clandestina che si è suddivisa l’intera città.
La loro esistenza è radicalmente subordinata a quella del vecchio nonno Don Santos perché questi non ha nessuna ambizione fuorché nutrire lautamente il suo maiale, a prescindere dall’abiezione in cui scenderanno i bambini per trovare gli avanzi necessari a saziarlo. Efraín, dopo che ha calpestato una scaglia di vetro, si ritrova con un piede infetto e quindi inutile al lavoro. Enrique, logorato dalla fatica, fa amicizia con un cane randagio che sceglie di chiamare Pedro, un animale malato e rachitico con cui condividerà perfino la sua razione quotidiana di cibo per persuadere il nonno a tenerlo.
Don Santos inveisce senza compassione contro i ragazzi ogni volta che sono esausti e allettati.
Non importa, ci penso io. Siete merda, merda schietta! Dei poveri avvoltoi senza piume. Vi farò vedere io come ce la faccio meglio di voi: è ancora forte il nonno! Ma una cosa è certa, oggi restate digiuni. Non vi darò da mangiare finché non vi alzerete per andare al lavoro!
Vivono in un mondo «fatto di melma, di ruggiti, di assurdi castighi» dove non possono riposarsi e la serenità sembra impossibile, fino a quando non succede qualcosa.
I ragazzi forse si salveranno. Invece Pedro, il cane, farà una fine tremenda. Anche Don Santos, quasi per contrappasso, ingaggerà uno scontro titanico con Pascual.
Efraín e Enrique, acciaccati e impauriti, fuggiranno disperatamente dalla casa in cui erano tenuti prigionieri dal nonnom sperando di continuare a vivere lontano da ogni male. È l’innocenza che sopravvive a dispetto della crudeltà, una tenue speranza in un mondo privo di egoismo e violenza.
Presto – esclamò Enrique precipitandosi verso il fratello. Presto, Efraín. Il vecchio è caduto nel porcile. Dobbiamo andarcene via. Dove?- chiese Efraín – In un posto qualsiasi, allo scarico, dove si può mangiare qualcosa, dove stanno gli avvoltoi. – Non ce la faccio ad alzarmi! Enrique afferrò il fratello con tutte e due le mani e se lo strinse contro il petto. Abbracciati stretti che sembravano una sola persona, attraversarono lentamente il cortile. Quando aprirono il portoncino si accorsero che l’ora celeste era finita e che la città, sveglia e viva, apriva davanti a loro la sua gigantesca mandibola. Dal porcile arrivava lo strepito di una battaglia.
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