Quer pasticciaccio brutto de Dino Campana
Una Cometa di Halley nel cielo del primo novecento
Nonostante l’apparente forzatura, l’allusione del titolo (che Carlo Emilio Gadda avrebbe, si spera, perdonato) si presta bene a definire un fenomeno – quello di Dino Campana, il poeta pazzo marradese – verso il quale generazioni di studiosi si sono accostati con più di un grattacapo. Questo perché la vicenda intellettuale di Campana rappresenta per il critico un affare piuttosto scomodo, un vero e proprio intrigo nel cuore del nostro novecento letterario: persino una fonte di imbarazzo, derivante dalla necessità di determinare una collocazione nel panorama della nostra poesia ad personalità che non può lasciare indifferenti e, allo stesso tempo, dall’impossibilità di farlo in modo del tutto esaustivo e soddisfacente.
Ecco il punto: Dino Campana si presenta, tanto agli interpreti quanto ai semplici lettori, come poeta al di fuori (o al di sopra) di ogni codice: un momento unico ed irripetibile che non può passare inosservato, capace di destabilizzare l’orizzonte della letteratura italiana come una Cometa. Quella di Halley magari, riprendendo Sebastiano Vassalli che, proprio alla vita di Campana ha voluto dedicare un “romanzo-verità”, il primo della sua stagione matura.
Ed in effetti, inosservato non ci è passato il poeta dei Canti Orfici, se con la sua attività hanno voluto fare i conti personalità come Contini e Bo, Montale e Saba, che hanno contribuito all’affollamento di opinioni sul suo conto, senza tuttavia poter risolvere la scarsità di risposte definitive alle tante domande. Quella riservata a Dino Campana è stata cioè una ricezione critica faticosa ed altalenante, resa forse più problematica dalla difficoltà a dare sulla sua opera un giudizio che prescindesse dall’ingombrante esperienza biografica dell’autore.
In Campana diventa infatti complicato come in pochi altri scrittori sciogliere il legame tra vicenda umana e vicenda letteraria; della sua storia personale si è presto costruita una vera e propria mitografia, alimentata da una ricchissima aneddotica che ha tentato di farne una sorta di Rimbaud italiano e ha contribuito a determinare l’indiscutibile fascino del “personaggio Campana”. Al di là delle leggende, molti elementi certificano la sua personalità problematica e la sua esistenza travagliata: diverse testimonianze si hanno sulla sua asocialità, sui difficili rapporti familiari, sulle peregrinazioni e le risse, sugli arresti e i momentanei internamenti, sui viaggi avventurosi in Italia, in Europa e addirittura in Argentina. Si hanno conferme anche del desiderio e dei tentativi del poeta di prendere parte alle sorti della società intellettuale del suo tempo (si pensi ai Lacerbiani ma non solo) ma anche sulla sostanziale incomunicabilità, se non sull’avversione totale, con essa.
Dato credito al fascino del personaggio, è da considerarsi comunque un dato di fatto che la sua oscillante inquietudine esistenziale ha deviato progressivamente ed inesorabilmente verso una effettiva follia patologica che lo ha costretto al definitivo internamento nel manicomio di Castel Pulci con il conseguente abbandono della letteratura a soli 33 anni. In ogni caso, basteranno i pochi cenni fatti per capire quanto sia forte la tentazione a lasciarsi distrarre e condizionare, nell’interpretazione dell’opera, dagli elementi biografici così “esuberanti”, croce e delizia della critica campaniana. La sua pazzia è stata un ostacolo al pieno esercizio della letteratura? È stata invece la fonte della sua ispirazione? È stata invece una fortuna che l’ha sottratto, facendone una sorta di maudit, all’anonimato e alla mediocrità? Diverse domande e altrettante possibili posizioni; il problema rimane più che mai aperto e fascinoso.
Ad ogni modo, il solo elemento meritevole di attenzione per consacrare la statura poetica di Dino Campana rimangono i Canti orfici (1914), di fatto l’unico suo lavoro, l’opera a causa della quale il presunto “pasticciaccio” esiste. Si tratta di un prosimetro le cui vicende editoriali rispecchiano fedelmente i travagli del proprio autore e il cui titolo, nell’allusione ai culti orfici dell’antichità, già dichiara una precisa concezione della poesia come fatto oscuro e misterioso, a tratti imperscrutabile, la cui comprensione risulta appannaggio di pochi eletti. Non mancano per la verità, temi ricorrenti: il motivo forse fondamentale è quello del viaggio, onirico o reale, in una dialettica costante tra prossimo (Faenza, Firenze, Genova) e remoto (la pampa argentina). Costante è anche l’allusione alla notte, nella cui oscurità il distacco tra allucinato e razionale è meno evidente, così come non va è ignorata anche la vocazione figurativa degli Orfici, in cui coesistono atmosfere a cavallo tra il visivo ed il visionario dominate da un insistente cromatismo. Questi riscontri testimoniano un effettivo ammiccare – chissà quanto consapevole – ad alcune categorie storico-letterarie (su tutte, il Simbolismo francese) e permettono di ricostruire, almeno in parte, le suggestioni e le influenze che hanno indirizzato l’operare dell’autore. A quest’ultimo si deve comunque riconoscere un costante sperimentalismo formale, che non ci permette di collocare inequivocabilmente il testo all’interno di una precisa tradizione o tantomeno di una scuola.
Può bastare questo per considerare esaurita l’interpretazione di un lavoro così intenso e problematico? Con tutta probabilità, no: quel che infine resta al lettore è la sostanziale irriducibilità dell’opera in categorie prestabilite, la sua incontenibilità all’interno di qualsiasi confine critico. Queste poche decine di pagine, con la loro forza centrifuga, si fanno simbolo della condizione asintomatica del loro autore, emblema della sua indole sfuggevole ed incoerente. Di Dino Campana, in sostanza, i Canti Orfici testimoniano lo spirito assoluto (nel senso più letterale del termine: ab-solutus, sciolto da vincoli) ed irregolare, in grado comunque (o forse proprio per questo) di consegnarci una letteratura che non può essere ignorata, per il coinvolgimento e lo sconvolgimento emotivo che provoca. Gli Orfici si presentano in quest’ottica quale esemplare incarnazione lirica del sublime, di quella bellezza necessaria né consolatoria né conciliatoria che disturba più di quanto rassicuri.
Cosa conservare, in definitiva, di Dino Campana e del suo poetare? Fondamentalmente, l’impossibilità di costringerlo in schemi e categorie, la totale acanonicità della sua poetica, l’inadeguatezza umana che dà vita ad una letteratura spiazzante, lasciando irrisolto l’intrigo e consolidando i grattacapi critici sulla dimensione definitiva del poeta: merita, cioè, un destino diverso dal confino tra i minori del nostro novecento?
Bibliografia:
Dino Campana, Canti Orfici, a cura di Renato Martinoni, Torino, Einaudi, 2003.
R. Martinoni, Introduzione, Ivi, pp. V-LIV.
Sebastiano Vassalli, La notte della cometa. Il romanzo di Dino Campana, Torino, Einaudi, 1990.
Poesia italiana del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Torino, Einaudi, 1969.
Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978.
Crediti per l’immagine in evidenza: Panorama
Articolo a cura di Dario Cerutti