Questa non è una quercia di Bruegel
Che ogni romanzo si fondi sull’inganno è nozione troppo risaputa perché debba commentarla.
Fedele a tale dichiarazione, Alessandro Zaccuri, prolifico e raffinato narratore metafisico, andato a scuola da Borges, accompagna il lettore alla ricerca della verità nascosta dietro a un’incredibile storia cesellata con meticolosità e ingegno. La quercia di Bruegel (Aboca Edizioni) dischiude un denso concentrato di invenzioni, riflessioni ed emozioni che non possono lasciare indifferente nessuno, né i lettori più frettolosi, magari catturati dall’incalzare inesorabile della vicenda, né i palati più fini di quei lettori che potranno apprezzarne le declinazioni metaletterarie.
Le coordinate temporali sono gli attentati di Molenbeek del 2016 e i primi mesi della pandemia del 2020, due scenari inquietanti che segnano l’atmosfera greve di questo terzo millennio che pareva promettere l’idilliaca fine della storia, ma è stato portatore di immani tragedie.
I protagonisti sono uno scrittore senza qualità che sbarca il lunario con romanzi storici dozzinali, ricorrendo a diversi eteronimi, come un Pessoa del luogo comune, e la neurologa milanese Matilde Rovani, specializzazione a Londra e nel Massachusetts, persona di buone letture che non disdegna le opere d’arte. Per una ragione o per l’altra – il letterato quando capita scrive di artisti, la scienziata si occupa «del cervello, di quello che c’è dentro e di quello che a volte manca» – il Vecchio (Bruegel) rappresenta un’ossessione per entrambi: galeotto è un Taschen senza pretese che fuoriesce fra le carte sparse della donna, una monografia su Bruegel, di cui lo scrittore possiede un’identica copia ricca di annotazioni che utilizza per le sue ricerche.
Ma i punti di contatto non finiscono qui. L’intera vicenda è sapientemente costruita su sbalorditive simmetrie e altrettanto sorprendenti disimmetrie. Paradossale è la storia come lo sono i suoi protagonisti. Senza anticipare troppo, valgano due esempi su tutti: quello dello scrittore che dovrebbe scrivere un libro su Bruegel e finisce per scriverlo su Magritte; quello della neurologa che dovrebbe curare il paziente e finisce per innamorarsene. La straripante imaginerie dell’autore si muove sul filo sottile di un pregevole bizantinismo.
L’originalità è sopravvalutata, questo è il punto, i lettori dei miei romanzi non desideravano altro che essere stupiti, altro non volevano che restare a bocca aperta davanti al prossimo colpo di scena. Nello stesso tempo, non riuscivano a meravigliarsi se non di qualcosa che già conoscessero per sentito dire. Consideravano audaci i pensieri che qualcun altro aveva pensato per loro. A sorprenderli era l’ovvietà, mai l’invenzione.
Fedele a tale estetica, solo apparentemente incongrua, Zaccuri escogita un ordito singolare, ricco di colpi di scena che conducono il lettore, attraverso un succedersi di deviazioni dal percorso principale, a interrogarsi sul rapporto fra l’arte e la vita, la fiction e la storia, la letteratura e la realtà. Come in certe opere di Italo Calvino, l’autore ci conduce per mano alla scoperta di ciò che sta oltre l’inesauribile superficie delle cose. E se il pretesto dei quadri di Bruegel rappresenta il motore esemplare della narrazione, il linguaggio levigato, cartesiano, quasi aulico dell’autore conferisce a questo romanzo quel valore aggiunto letterario, che, purtroppo, oggi, non è così frequente incontrare.
Notevoli alcuni colpi di gran classe. Uno su tutti lo mette a segno lo scrittore-protagonista quando si accinge a riportare la storia della neurologa: «Non chiedetemi, però, di giurare che nel mio resoconto non ci sia nulla d’inventato. Farei torto al buon nome dei miei molti nomi se pretendessi di farvi credere di aver rimaneggiato il vero senza aggiungervi qualche oncia di verosimile. Farei torto alla vostra intelligenza, al vostro desiderio inconfessato che un poeta (o un poetastro in mancanza di meglio) adoperi il suo ingegno per rimettere un po’ d’ordine nel guazzabuglio della realtà».
Sì, proprio il guazzabuglio della realtà rappresenta uno dei temi, se non il tema centrale del romanzo di Zaccuri. Tutto ciò rimanda alla tesi dell’eccentrico scrittore inglese Jasper Fforde, secondo il quale «Se la vita vera fosse un libro non troverebbe mai un editore». Nella vita, in effetti, succedono un sacco di cose senza alcuna ragione, il caos magmatico dell’esistenza prevale su qualsiasi significato. Spetta allora alla letteratura conferire un senso a un reale costitutivamente entropico, un compito che l’accomuna al mito e alla religione, le grandi metanarrazioni che da sempre hanno accompagnato la storia dell’umanità.
In tale direzione alcuni critici hanno suggerito un’interpretazione di La quercia di Bruegel in chiave religiosa, dal momento che il mistero gioca un ruolo centrale nell’intera vicenda e la scoperta della verità ha strettamente a che fare con l’esperienza della fede, alla quale, nelle ultime pagine del libro, fanno riferimento esplicito i due protagonisti, citando la conversione di Alessandro Manzoni. Una prospettiva ricca di fascino, ma che non ci convince appieno. Preferiamo di gran lunga una lettura più ludica dell’opera che ruoti attorno al rovesciamento fra il realismo maniacale dei Bruegel e il surrealismo sovversivo di Magritte. Tra i numerosi pittori citati questa è la figura cardine che incarna la contraddizione fra la rappresentazione e la realtà, il significante e il significato, le parole e le cose. Ciò non significa che nel disvelamento finale, l’inatteso coup de theatre, sia del tutto esclusa la sacralità del mistero iscritta nel reale:
Non ci sono segreti da svelare, basta la realtà. Dura come una tavola di quercia…