Raymond Carver, Orientarsi con le stelle
di cosa parliamo quando parliamo di poesia
Sono venuto qui per cercare di fuggire
da tutto. Specialmente dalla letteratura.
Quel che comporta e le varie conseguenze.
In fondo all’anima c’è una grande voglia di non pensare.
Di starsene tranquilli. Insieme a una gran voglia
di essere severi, sì, rigorosi.
Ma l’anima è anche una gran figlia di buonadonna,
di cui non ci si può fidare sempre. Me n’ero dimenticato.
Le ho dato retta quando diceva: Meglio cantare quel che è stato
e non tornerà mai più invece di quel che è ancora
con noi e con noi resterà anche domani. O forse no.
(Onde radio, per Antonio Machado, p.124)
Raymond Carver è stato uno dei più brillanti prosatori americani del ‘900. Nato a Clatskanie, una cittadina dell’Oregon occidentale, nel 1938, è famoso soprattutto per i suoi racconti, pubblicati in varie raccolte da Einaudi o da Minimumfax.
Recentemente portato alla ribalta dal film premio Oscar Birdman, dove un eccellente Michael Keaton decide di allestire uno spettacolo teatrale basato su What we talk about when we talk about love (pubblicato in italiano da Einaudi), Carver ha scritto sempre di gente normale nell’accezione più noiosa del termine: uomini, donne, bambini, giovani senza grandi ambizioni, senza talento, che vivono giorno per giorno, alienati dai loro lavori di fatica, chiusi nella grettezza di un’America provinciale, incapaci di cambiare perché incapaci, forse, di prendere coscienza della loro situazione. Il suo stile, proprio in relazione al contenuto narrato, è sempre stato semplice, scarno, al limite dell’essenzialità.
Forse però non tutti sanno che Carver vedeva sé stesso principalmente come poeta.
La casa editrice Minimumfax ha pubblicato nel 2006, per poi ripresentarlo nel 2016 con una nuova veste grafica, Orientarsi con le stelle che, nell’ottima traduzione di Riccardo Duranti e Francesco Durante, raccoglie tutta la produzione poetica dell’autore. Il volume è impreziosito da un’introduzione di Tess Gallagher, musa e collaboratrice di Carver, prima lettrice, confidente e infine terza moglie.
Orientarsi con le stelle contiene quindi Voi non sapete che cosa è l’amore (1983), Racconti in forma di poesia, Blu oltremare (1986), Il nuovo sentiero per la cascata (pubblicato postumo nel 1989) e tre poesie inedite. Il lettore può quindi seguire l’evoluzione della poetica dell’autore, una produzione lunga e corposa che inizia parallelamente alla scrittura in prosa, ma che sboccia soprattutto negli ultimi dieci anni della sua vita.
Nella Stella polare è Carver stesso a spiegare il suo incontro con la poesia: l’anno è il ’56 o forse il ’57. Il posto Yakima, Washington. Raymond lavora come fattorino per una farmacia ed è per una consegna che si ritrova in casa di un uomo distinto e facoltoso – di cui poi non ricorderà neanche il nome – che gli dona un punto di riferimento, con generosità casuale, nel momento in cui gli regala un numero di Poetry, rivista letteraria che il quasi ventenne Carver aveva adocchiato mentre aspettava il pagamento.
Carver è giovane, povero, già invischiato in un matrimonio che sente troppo stretto, e solo allora scopre che esiste la possibilità di inviare quello che si scrive nella speranza di vederlo pubblicato. “Quella sera tardi“, scrive, “con gli occhi arrossati di tanta lettura, ebbi la netta sensazione che la mia vita stesse subendo un mutamento profondo, addirittura, perdonatemi, meraviglioso.”
Carver incontra la poesia e se ne innamora, il che sembra assurdo a prima vista, perché le sue parole, sempre scelte e ponderate con attenzione, mancano completamente di lirismo, sono lontane anni luce da quella suggestione poetica e sembrerebbero incastrarsi a fatica nei versi e nei rigidi schemi della metrica. Si possono scrivere poesie di uomini, donne, bambini, giovani senza grandi ambizioni, senza talento, che vivono giorno per giorno, alienati dai loro lavori di fatica, chiusi nella grettezza di un’America provinciale, incapaci di cambiare perché incapaci, forse, di prendere coscienza della loro situazione? Carver lo fa, allestendo quel teatro, che Barthes definiva singolare, della mediocrità (non possono esserci sogni, fantasmi di mediocrità?), con poesie che sembrano quasi mini racconti su persone che sono come un corvo qualsiasi, un corvo
che in vita sua non è mai riuscito a trovare il suo posto / né a far niente che valga la pena di raccontare.
Carver scava all’interno della noia e del quotidiano, talvolta usando la prima persona e aprendo uno spiraglio sulla sua famiglia di alcolizzati, sulla fragilità della figlia che crede di conoscere anche se forse si sbaglia, sulla sua infanzia spezzata, talvolta osservando la situazione dall’esterno, descrivendo i sogni che fa quel postino che non sorride mai (e che poi li odia, quei sogni, “perché quando si sveglia / non c’è più nulla; è / come se non fosse mai stato / in nessun luogo, se non avesse mai / fatto nulla”).
Centrale nella sua poetica resta la morte, “l’andare in un altro posto, meno bello”: è la cosa che più teme in assoluto, come esplica nella poesia Paura, una sorta di elenco serrato dei suoi grandi timori – tra i quali spicca un “Paura che quel che amo risulterà fatale per quelli che amo”. Ci sono componimenti sull’abito da indossare il giorno della morte, sulle modalità di sepoltura, sulle sue speranze di essere circondato in quell’ultimo momento, ormai vecchio e malato, da amici e parenti, e infine sul suo desiderio di invecchiare, perdendo tutto e tutti, che purtroppo non vedrà mai esaudirsi dato che si spegnerà a soli cinquant’anni.
Deliziose una serie di poesie nelle quali l’autore cerca quasi di condurre il lettore nella sua biblioteca personale, mostrandogli le sue letture, denunciando in modo palese i suoi modelli.
Carver dialoga con Bukowski, immagina Balzac con il cervello che sfrigola per una nuova scena di uno dei tanti romanzi del creativo scrittore francese, descrive, quasi l’avesse spiata da lontano, una scena di pesca tra Hemingway – suo grande maestro dichiarato per il suo realismo – e William Carlos Williams, un medico che “sa come vanno certe cose”. Dedica moltissimi componimenti a Cechov (del quale aveva già descritto gli ultimi giorni di vita in un racconto per il New Yorker), rivelando il suo debito verso l’autore che gli valse l’appellativo di “Cechov americano” da parte del Guardian, uno a Kafka e uno ad Artaud (“Antonin, è proprio vero, non ci sono più capolavori. / Ma mentre lo dicevi ti tremavano le mani / e dietro ogni sipario c’è sempre, tu lo / sapevi bene, un fruscio”.) E ancora, tra i contemporanei, Richard Ford e Haruki Murakami.
In questi versi emerge la componente più intima di Carver, la sua vera essenza (che in fondo può essere quella di ognuno di noi), e con la solita capacità di scegliere le parole giuste, di cesellare ogni singola frase, riesce a raccontare al lettore la sua personale visione di questo piccolo, grande mondo che è la spaventosa e semplice esistenza quotidiana.
Non aveva neanche letto una poesia da mesi.
Che razza di vita era mai questa? Una vita
in cui uno ha troppo da fare persino per leggere poesie?