Resistere alla metamorfosi: restare umani
"Rinoceronte" di Ionesco
Il tema della metamorfosi (dal greco μεταμόρϕωσις, “trasformazione”) è stato affrontato nel corso di tutta la letteratura mondiale fin dall’antichità, come dal più famoso esempio delle Metamorfosi di Ovidio, capaci di incantare intere generazioni, tradotte e volgarizzate nel corso dei secoli, fortemente amate e fonte di molteplici spunti iconografici, da Tiziano e Giulio Romano, da Bernini a Picasso.
Questo mutamento di forma si manifesta con tratti e misure diverse nelle varie narrazioni; la maggior parte delle volte è volontario per le divinità e involontario per gli uomini, i quali vengono puniti o, più raramente, premiati mediante il cambiamento: mentre Dafne accetta la trasformazione in alloro per sfuggire alle attenzioni di Apollo, Atteone, nolente, la subisce per aver visto l’indicibile.
Il passaggio classico dall’uomo all’animale è stato pertanto utilizzato spesso con funzione didattica e talvolta moralizzante (basti pensare al successo dell’Ovide moralisé nel Medioevo) e si configura come un processo che non permette possibilità di sovversione. In tutte le situazioni infatti la metamorfosi sembra essere inarrestabile: l’individuo destinato al cambiamento non ha alcun modo di resistervi o di contrastarlo per mantenere il suo stato originario.
Nel Novecento, invece, si trova un esempio di forte opposizione a questo mutamento, volontario o coatto che sia: a resistere alla metamorfosi è un uomo, Berenger, protagonista del Rinoceronte, opera teatrale di Eugène Ionesco (1959).In una prefazione, l’autore spiega la genesi del testo riportando la testimonianza dello scrittore Denis De Rougemont che, trovatosi a Norimberga durante una manifestazione nazista, rimase colpito dal delirio che elettrizzava la folla all’arrivo del Führer.
Denis de Rougemont racconta di essersi sentito a disagio, spaventosamente solo, in mezzo alla folla, e di aver resistito ed esitato nello stesso tempo. Poi, sentendosi «letteralmente» drizzare i capelli in testa, capì ciò che significa Orrore Sacro. In quel momento, non era il suo pensiero a resistere, non erano le argomentazioni che gli venivano in mente; era tutta la sua «personalità» che si ribellava. Ecco probabilmente il punto di partenza del Rinoceronte (Ionesco 1965, p. 190).
La commedia ha luogo in una cittadina senza nome nella provincia francese. Il primo atto si apre su una piazza in una qualsiasi domenica d’estate. In questo spazio-tempo sospeso e anonimo, Berenger, dopo aver passato una notte di bagordi, incontra il suo amico Jean, che lo rimprovera per il suo stile di vita.
JEAN […] Un po’ di amor proprio, che diamine!
BERENGER Amor proprio! Eh, non tutti sono come lei. Io non mi ci adatto. Proprio non mi ci adatto alla vita!
JEAN Storie! Tutti dobbiamo adattarci. Perché, lei forse si crede un essere superiore? (Ionesco 1960, p. 19)
Nella traduzione di Giorgio Buridan forse però si perdono, a mio parere, alcune sottigliezze. Ecco la versione originale:
JEAN […] De la volonté, que diable!
BÉRENGER Oh! de la volonté, tout le monde n’a pas la vôtre. Moi je ne m’y fais pas. Non, je ne m’y fais pas, à la vie.
JEAN Tout le monde doit s’y faire. Seriez-vous une nature supérieure?
Si parla quindi più propriamente di volontà e di natura superiore, e credo che Ionesco voglia strizzare l’occhio al lettore (o spettatore che sia) rovesciando poi nel corso della storia queste premesse.
Mentre i due continuano a conversare, si sentono un rapido galoppo e un lungo barrito. È curioso notare come Berenger inizialmente non si renda conto di nulla, focalizzato su sé stesso a causa della sonnolenza e dell’apatia. Sul marciapiede irrompe un rinoceronte, suscitando lo stupore e il panico dei presenti, tranne di Berenger, che sbadiglia ancora tra l’annoiato e l’infastidito. Jean incalza l’amico per cercare una spiegazione razionale, ma Berenger propone solo ipotesi assurde.
BERENGER Va bene, d’accordo. Un rinoceronte in libertà è pericoloso.
JEAN Non dovrebbe nemmeno esistere!
BERENGER D’accordo, non dovrebbe esistere. Anzi, è un fatto pazzesco. Bene. Ma non c’è nessuna ragione perché lei se la prenda con me a causa di quel pachiderma. Che diavolo ci posso fare io se un qualsiasi perissodattilo si diverte a passare per caso davanti a noi… Uno stupido quadrupede, poi, che non val neanche la pena di…! E feroce, per giunta… E che è sparito… che non c’è più… Non vogliamo mica preoccuparci di un animale che non esiste, non le pare? Parliamo d’altro, caro Jean, parliamo d’altro… (Ionesco 1960, p. 29)
Jean incita poi l’amico a riprendere in mano la sua vita, portando come modello sé stesso, uomo forte sia perché prestante fisicamente, sia perché dotato di forza morale; l’unico modo di vivere, dice ancora, è lottare. Contemporaneamente al dialogo tra i due, in controcanto, un filosofo crea una serie di sillogismi fallaci, dando un continuo senso di straniamento. Berenger è quindi presentato come un alcolizzato, sfiduciato e disilluso, mentre Jean è risoluto, volitivo e vigoroso. L’uno sembra essere destinato alla rovina, l’altro al successo. L’arrivo di un secondo rinoceronte porta nuovamente scompiglio e nel clamore generale i due amici finiscono per litigare definitivamente.
Il secondo atto si svolge all’interno di un ufficio di un organismo statale. A dialogare sono Papillon, capoufficio, Dudard, vice capoufficio, il signor Botard, maestro in pensione e Daisy. Argomento di conversazione è la manifestazione del rinoceronte il giorno precedente: Botard è scettico e crede sia una mistificazione messa in atto dalla propaganda e pur consapevole delle molteplici segnalazioni allarmate nella città, di fronte agli stessi animali, continua con il suo negazionismo estremo.
La seconda scena del secondo atto si svolge in casa di Jean ed è forse la più efficace rappresentazione del significato di tutta l’opera. Berenger decide di andare a trovare l’amico per tentare una riconciliazione. Jean è inizialmente restio ad aprire e sembra aver dimenticato il motivo del loro screzio.
BERENGER Non si ricorda? Era a proposito del rinoceronte, di quel disgraziato rinoceronte!
JEAN Che rinoceronte?
BERENGER Ma sì, il rinoceronte, o – se preferisce – quei due disgraziati rinoceronti che abbiamo visto.
JEAN Ah, sì, mi ricordo… Ma chi le ha detto che quei due rinoceronti erano disgraziati? (Ionesco 1960, p.78)
La metamorfosi gradualmente emerge sulla scena e procede per due binari paralleli, uno fisico e uno etico. Questo punto è fortemente autobiografico perché, come riporta in Passato presente, Ionesco tra gli anni ’34-’38 osserva tutti i suoi amici subire la trasformazione.
Chiacchieravo con S. Chiacchieravamo tranquillamente. Poi, parliamo di politica. Inutile dire che S. è antinazista e anti Guardia di ferro. Eppure dice: «Le Guardie di ferro non hanno ragione. Non hanno ragione su tutti i punti. Tuttavia bisogna ammettere, lei sa che non sono antisemita, bisogna ammettere che gli ebrei anche loro…ecc. Lei sa che sono contro le Guardie di ferro. Tuttavia in loro c’è un’esigenza spirituale e materiale che…» Sussulto, spaventato. Cominciano sempre così. Ammettono certe cose, per obiettività. […] Tutti i miei amici antifascisti sono diventati fascisti convinti e fanatici perché hanno cominciato a cedere su un particolare trascurabile. Conosco il fenomeno: l’incubazione comincia; ecco i primi sintomi. Occorrono dalle tre settimane ai due mesi per entrare nel sistema. Hanno cominciato tutti così. Qualche volta non hanno neppure bisogno di parlare perché mi renda conto del cambiamento. Un silenzio significativo, un sorriso, mi fanno capire che qualcosa di irreparabile è accaduto. Sono stati ghermiti. L’espressione del loro viso cambia. Una certa luce nello sguardo. Hanno tutti un alibi: la purezza. (Ionesco 1970, p. 245)
Jean inizia a cambiare: sente un fuoco dentro, la voce si fa rauca, c’è un bernoccolo sulla sua fronte che piano piano si trasforma in un corno, il colorito è pallido e verde, il respiro si fa agitato e le vene gonfie, la pelle è sempre più spessa e dura. D’altro canto Berenger mostra una maturità che non aveva nel primo atto, un interesse più attivo nei confronti del suo amico, abbandonando l’atteggiamento apatico e distaccato mostrato inizialmente.
La metamorfosi non è immediata, deve prima trascorrere quel periodo di incubazione teorizzato da Ionesco. Jean ha solo iniziato a fare delle concessioni ai rinoceronti, ad accettarne alcune credenze: il seme della bestia si è impiantato dentro di lui e progressivamente inizia a germinare, mostrandosi in un primo momento all’esterno, per poi avere una risonanza anche nella sua interiorità. E così l’onesto cittadino, il classico borghese, l’uomo che nel primo atto elogiava la sua fermezza e la sua volontà, la sua etica e il suo equilibrio, diventa prevaricatore e stupido, afferma di odiare l’uomo e di non credere più nella morale. Guidato da una volontà ferrea, convinto ora della sua posizione, Jean rinuncia a sé stesso, desideroso di fondersi con la sempre più crescente massa amorfa di animali, ed esce dal bagno completamente trasformato in rinoceronte, violento contro il suo amico: Berenger grida, chiede l’intervento degli altri condomini, della polizia, ma non c’è nessuno disposto ad aiutarlo.
In un dialogo con Claude Sarraute, giornalista francese e figlia della scrittrice Nathalie Sarraute, Ionesco spiega il motivo che lo ha spinto a scegliere proprio il rinoceronte per esemplare il cambiamento dell’uomo nuovo:
(Ionesco) – Non so se l’ha notato, ma quando le persone non condividono più la nostra opinione, quando non possiamo più intenderci con loro, abbiamo l’impressione di aver a che fare con dei mostri.
(Sarraute) – Con dei rinoceronti?
(Ionesco) – Per esempio. Di questi hanno il candore e la ferocia mescolati assieme. Sono capaci di ucciderti a cuor leggero se non pensi come loro. E la storia ci ha dimostrato, in questo ultimo quarto di secolo, che le persone così trasformate non soltanto assomigliano a rinoceronti, ma lo diventano veramente. (Ionesco 1965, p. 196)
La pièce ha i contorni di una tragedia: il protagonista è impotente di fronte alla trasformazione, metaforica e concreta, dell’amico (e della collettività) che abbandona i principi e le regole che ha sempre seguito per valori nuovi, irrazionali e violenti. Ionesco riesce a rendere drammatica la solitudine di Berenger, traendo spunto anche della propria esperienza personale: la metamorfosi di molti dei suoi conoscenti sarà infatti un’ossessione costante per tutta la sua vita, un vero e proprio trauma secondo la testimonianza di Mariana Klein-Șora (moglie del filosofo Mihai Șora), vicina al drammaturgo negli anni parigini.
Ionesco inizia il terzo atto in modo identico alla scena precedente, creando un doppio speculare: la camera di Berenger ricorda quella di Jean e tutto sembra prefigurare una sua imminente trasformazione; Dudard bussa alla porta di Berenger così come Berenger aveva bussato alla porta di Jean. I due iniziano a parlare della rinocerontite: Dudard crede che il collega stia dando troppo peso alla questione, è un fatto passeggero, non c’è da preoccuparsi, basta prenderla con più distacco (anche perché, ricorda, se lasciati stare i rinoceronti non attaccano, sono inoffensivi). Ma Berenger pronuncia una delle frasi cardine di tutta l’opera: «È che io mi sento sempre solidale con tutto quello che succede. Io partecipo, non posso restare indifferente». (Ionesco 1960, p. 98).
Non c’è bisogno di scomodare Gramsci e il suo famoso scritto pubblicato su «La città futura» sul dover essere sempre partigiani, ma Ionesco pone l’accento proprio sull’atteggiamento passivo di accettazione che porta il totalitarismo a conquistare il mondo e a cambiarne in negativo tutti i connotati.
Il comportamento dei due personaggi in scena è del tutto opposto: Berenger non si adatta alla situazione, mentre Dudard dice che inizia ad abituarsi alle circostanze; Berenger rifiuta la trasformazione e cerca attivamente di organizzare una resistenza: propone di scrivere ai giornali, di fare degli appelli, di coinvolgere le autorità o di chiedere aiuto all’estero, confidando nella solidarietà internazionale, mentre Dudard rimane indifferente e lo definisce un Don Chisciotte buonista. Vita activa da un lato, ignavia dall’altro, due diverse strade che necessariamente portano a due destini contrari. Molto interessante notare come Ionesco inserisca in Berenger un forte spirito europeista: l’apertura e la collaborazione tra stati europei può e deve essere secondo l’autore rumeno un argine al nazionalismo dilagante (a differenza di altri esponenti dell’élite intellettuale di Bucarest, Ionesco sarà a favore anche nella cultura di una maggiore universalizzazione più che di una limitata chiusura verso la cultura nazionale).
Si scopre che anche Papillon, il capo reparto, si è trasformato in rinoceronte, lasciatosi trascinare in modo acritico, solo per un transfert, a testimonianza di una vera e propria banalità della rinocerontite: Berenger considera questa metamorfosi non voluta persino peggiore di una consapevole. Alcuni quindi si trasformano per convinzione nella novità, altri per paura, alcuni ancora solo per comodità, perché non vogliono combattere ed è un sollievo essere come tutta la maggioranza, “normali rinoceronti”.
Berenger non ha studiato e non trova argomentazioni razionali per convincere Dudard dell’importanza di restare umani; pensa quindi di ricorrere al filosofo del primo atto, ma anche questi è diventato un rinoceronte, e corre festoso per la trasformazione. Questo personaggio serve a Ionesco per muovere una feroce critica verso il ceto intellettuale, incapace di creare un’attiva resistenza e talvolta fortemente colluso con i vari totalitarismi del Novecento. Sembra abbastanza immediato ritrovarvi la rappresentazione di Nae Ionescu, figura di spicco nel mondo accademico di Bucarest, che dal 1939 aderì alla Guardia di Ferro – guidato da un forte nazionalismo e un altrettanto saldo antisemitismo – influenzando poi tutta l’intellighenzia romena: se Eugène Ionesco si definì sempre avverso a questo stimato professore di metafisica, di tutt’altro avviso furono invece personalità del calibro di Emil Cioran e Mircea Eliade, altri amici di Ionesco “rinocerontizzati”.
In Dudard, a seguito delle sempre più frequenti metamorfosi, inizia a nascere l’idea che sia naturale trasformarsi e che si debba accettare tranquillamente la presenza dei rinoceronti nella società umana. Berenger invece non riesce ad accettarlo.
BERENGER Sono sicuro che ha torto lei… Lo sento, per istinto – o meglio – no, sono i rinoceronti che hanno l’istinto… io lo sento per intuito – ecco la parola – per intuito!
DUDARD Che cosa intende per intuito?
BERENGER Intuito significa… ma sì «così». E io sento «così», che la sua tolleranza… questa eccessiva indulgenza, in realtà, mi creda non è che debolezza… cecità! (Ionesco 1960, p. 106)
Mentre i rinoceronti imperversano per le strade e i filosofi propagandano le idee di questa razza animalesca e superiore, Berenger non sa dare subito una motivazione ragionata del suo voler resistere. Ma il suo rifiuto, che scaturisce da una condizione naturale, da questo intuito proprio dell’essere umano, mostra l’autenticità della sua resistenza: l’uomo concreto e finito, contro l’astrattismo del branco solamente perché è così che deve essere. Lo stesso Ionesco confessa le difficoltà provate nel suo tentativo di evitare la trasformazione in rinoceronte intorno agli anni Quaranta.
Eravamo là, uniti, noi che cercavamo di resistere agli altri, a coloro che ci accerchiavano. Si trattava di una resistenza mentale. Noi dovevamo convincerci ch’essi non avevano ragione; si trattava di trovare delle contro-ragioni, queste contro-ragioni dovevano essere vere. Eravamo giovani, allora, ed era difficile resistere intellettualmente contro tanti specialisti fanatici: sociologi, filosofi della cultura, biologi che sostenevano «scientificamente» le basi del razzismo, letterati, giornalisti (Ionesco 1970, p. 281).
L’unico antidoto alla rinocerontite è, per Ionesco, l’uomo stesso. Determinato, in quanto tale, ma soprattutto determinante. Debole forse, ma proprio grazie a questa debolezza, forte. Migliorabile e pieno di difetti, e pertanto perfetto così. Un umanesimo che non muove da una concezione superomistica di perfetta padronanza di ogni competenza e capacità, ma che, consapevole dei limiti dell’uomo, gli riconosce quell’essenza, quella coscienza, che lo contraddistingue e lo eleva, unico tra tutti gli animali.
La resistenza che bisogna mettere in atto non è guidata da un eroismo proprio di un semidio classico, non è fatta da gesti eclatanti né da teorie politiche, ma da una quotidianità quasi istintiva e naturalmente umana: «Alla fine eravamo non più di tre o quattro a resistere, non con le armi, ma moralmente, a quel contagio. Era un rifiuto spontaneo di tutto il nostro essere. Non tanto un rifiuto intellettuale» (Ionesco 1988, pp. 81-82).
Mentre Berenger e Dudard continuano a discutere, entra in scena Daisy, che comunica che Botard, abbandonato il suo complottismo, ha deciso di unirsi ai rinoceronti per seguire il proprio tempo. Ionesco punta così il dito contro il cieco consenso degli uomini che sono solamente slogan e apparenze, e nel loro fingersi controcorrente sono i più manovrati e manovrabili. Ma intanto anche Daisy, come prima Dudard, mostra iniziali segni di cedimento.
DAISY Eppure ci si abitua, sa? Più nessuno fa caso ai branchi di rinoceronti che passano per le strade a gran carriera. I passanti si scansano, poi riprendono la loro passeggiata e fanno gli affari loro come se niente fosse.
DUDARD È l’unica cosa da fare.
BERENGER Ah, no! Io non mi abituerò mai! (Ionesco 1960, p. 112)
Ancora una volta ciò che preme ricordare a Ionesco è l’importanza di non voltarsi dall’altro lato, di non accettare la presenza dei rinoceronti come se fosse naturale, solamente perché non si è coinvolti in prima persona: lasciare anche il più piccolo spazio di manovra a un qualsiasi tipo di rinocerontite vuol dire essere destinati, in un futuro più o meno lontano, a cedere su altre questioni. Anche Dudard quindi si trasforma, mentre Daisy è sempre più spaventata: tutto il genere umano si è imbestiatoe la terra trema.
I poliziotti sono rinoceronti. I magistrati sono rinoceronti. Tu sei l’unico uomo tra i rinoceronti. I rinoceronti si domandano come il mondo abbia potuto essere guidato dagli uomini. Tu stesso ti domandi: è vero che il mondo è stato guidato da uomini? (Ionesco 1970, p. 243)
Trattando la metamorfosi non si può che citare il capolavoro omonimo di Kafka: è interessante ricordare come inizialmente le opere di Kafka furono giudicate come una letteratura sostanzialmente inutile, e il loro valore venne riconosciuto solo nel 1963, nel congresso a Liblice, da alcuni teorici marxisti.
Gregor, nel diventare una mattina insetto, attraversa un processo che Fortini considera una «retrocessione», una «castrazione», una «impotenza». Niente di più distante da quello che invece credono di subire Jean, Dudard e tutti gli altri affetti da rinocerontite. Nessuno scadimento: grazie a questa trasformazione si sentono più belli,con uno splendido corno e una forza che li rende capaci di distruggere qualsiasi cosa intralci il loro cammino, migliori dell’uomo che ha la pelle troppo delicata, il respiro troppo sottile, la voce troppo bassa.
I rinoceronti, forti della loro superiorità fisica e a poco a poco anche di quella numerica, credono di essere nel giusto: sono loro la normalità e anche per Daisy l’uomo inizia a sembrare la deviazione. La sua prospettiva si ribalta nel giro di qualche battuta e nel momento in cui considera grazioso il muoversi di quegli animali furiosi e ottusi, nel momento in cui trova significativo il loro barrire senza senso, nel momento in cui l’uomo non viene messo più al centro del suo orizzonte esistenziale, si arrende e diventa una di loro.
C’è un solco tra Berenger, unico uomo rimasto, e loro, gli altri, i rinoceronti. Una dicotomia forte tra uomini e no, per dirla con Vittorini. Ionesco rende la disumanizzazione di chi decide di annullare sé stesso nella collettività e nella razza con la metamorfosi e non c’è possibilità di confusione e sovrapposizione tra le due condizioni. Nel Rinoceronte si è lontani anni luce da una metamorfosi dove il limite tra uomo e animale è così sottile da essere quasi sovrapponibile, tanto che il passaggio non deve neanche essere descritto (Gregor Samsa si sveglia ed è un insetto, non ci è dato sapere nulla della sua trasformazione proprio perché anche in questo sta lo straniamento kafkiano, nel rendere il percorso di trasformazione un’intensità sotterranea, per dirla con Deleuze). L’uomo nuovo è dotato di un’altra moralità, di un’altra filosofia, di un altro linguaggio nato dalla deformazione dell’odio e della violenza, ed è così diverso da appartenere proprio a un’altra specie, da essere dotato di un’altra natura per riprendere le parole iniziali di Jean. Ionesco rende concreta sulla scena la metamorfosi psicologica affiancandole quella fisica, ne descrive gli effetti, i comportamenti proprio per dare, in controluce, maggiore risalto alla componente umana di Berenger. Chi segue pedissequamente un’idolatria falsa il proprio giudizio sulla realtà e annulla il suo spirito, e per Ionesco perde di conseguenza ogni tipo di umanità, unico vero discrimine con l’animale.
Nel marzo del 1960 in un’intervista a sé stesso su «France Observateur», Ionesco afferma che gli spettatori devono assolutamente identificarsi con Berenger, unico capace di resistere alla rinocerontite. Mentre ancora il 19 gennaio dello stesso anno su «Le Monde» scrive: «Anche i rivoluzionari erano degli isolati all’inizio. Tanto da sentirsi incerti, da non sapere se avevano torto o ragione. Non riesco a capire come abbiano trovato in se stessi il coraggio di continuare da soli. Sono eroi» (Ionesco 1965, p. 197). Berenger è da subito presentato in tutti i suoi limiti propriamente umani: non è un eroe nel senso canonico del termine (l’autore scriverà anche, senza far nomi, che i «teorici dell’impegno, da diverse sponde» hanno criticato la scelta di far resistere un uomo semplice e senza vere qualità, invece che un vero e proprio eroe della Resistenza) e Ionesco, forte del suo umanesimo concreto, insiste proprio su questa condizione di normalità. Quello che Ionesco vuole ricordare, è che resistere è possibile solamente attraverso l’io, caratteristica presente in ogni uomo, anche quello più comune. Ciò non vuol dire che l’individuo debba vivere come monade, o che debba iniziare una guerra donchisciottesca contro tutti, perché Ionesco sa che l’uomo è pur sempre condizionato dal contesto sociale e culturale in cui si muove, animale politico per eccellenza. Ma per non diventare rinoceronti bisogna sapersi fare screziatura, differenziarsi, nella propria irriducibilità di essere umano, e saper trascendere queste ondate di odio e intolleranza che purtroppo attraversano i tempi.
L’uomo è l’unico essere degno di fede assoluta per Ionesco, che vuole sottolineare la necessità di mantenere la coscienza individuale di fronte alla reificazione dello Stato totalitario, alle leggi disumane del nazismo, all’odio scellerato dei Legionari, alla burocrazia cieca e servile alla Eichmann. E questa fiducia totale è possibile perché l’uomo non si limita a vivere, ma è in grado di esistere, nel senso etimologico della parola exsistĕre, “stare fuori”da ogni tipo di dottrina o fanatismo, dalle false necessità create del momento storico o dai vari manifesti rinoceronteschi.
Il capolavoro di Ionesco mette in mostra la degradazione dell’umanità attuata dal nazismo (anche se l’autore stesso nel 1970 affermerà che la rinocerontite può applicarsi anche all’estrema sinistra), che ha compiuto in primis una violenta aggressione verso la persona; Rinoceronte ricorda come, per resistere a questa spersonalizzazione bisogna esistere nell’unicità propria di ogni essere umano.
Il collettivismo porta infatti l’individuo ad annullare sé stesso nella nazione, nella razza pura da preservare, nello Stato che da astrazione diventa divinità e unico senso di vita. Bisogna invece organizzare e coltivare il proprio io, non adattarsi, contrapporsi alla dilagante disumanizzazione, restare umani. Oltrepassare i credi irrazionali, le ideologie e le paure scaturite dall’ignoranza, vincere i luoghi comuni e ragionare senza correre dietro chi urla più forte, sapere quindi resistere consapevolmente alla corrente attraverso un vero esistenzialismo.
Come Berenger, questo uomo in rivolta, per dirla con Camus, bisogna saper essere capaci di dire no alla metamorfosi.
BERENGER […] E allora, tanto peggio! Mi difenderò contro tutti! La mia carabina, la mia carabina! (Si volge verso la parete del fondo dove si vedono le teste di rinoceronte. Urlando) Contro tutti quanti mi difenderò, contro tutti quanti! Sono l’ultimo uomo, e lo resterò fino alla fine! Io non mi arrendo! Non mi arrendo! (Ionesco 1960, p. 129)
Sipario.
Bibliografia:
E. Ionesco, Antidoti, Spirali, Milano, 1988.
E. Ionesco, Rhinocéros, Éditions Gallimard, Paris, 1959.
E. Ionesco, Il Rinoceronte, Einaudi, Torino, 1960.
E. Ionesco, Passato presente, Rizzoli, Milano, 1970.
E. Ionesco, Note e contronote. Scritti sul teatro, Einaudi, Torino, 1965.
A. Laignel-Lavastin, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, UTET, Torino, 2008.