«Riuscissi a dire chi sono». Thomas Bernhard poeta
"Sulla terra e all’inferno" e "Sotto il ferro della luna"
Chi ha già tenuto tra le mani un suo libro sa che si deve aspettare dall’autore austriaco martellanti ripetizioni e un ritmo capace di descrivere claustrofobicamente il disagio di vivere e l’assurdità del mondo. L’ossessività del suo stile è cosa nota, e nelle prose – che sia tra le pagine dell’esordio Gelo del 1963 o del celebre Perturbamento (1967, in Italia pubblicato da Adelphi nel 1981), che ci si muova tra il Tirolo di Amras o la Roma di Estinzione –, si rimane avviluppati da una scrittura basata sulla continua replica di pensieri, parole, opere e omissioni dell’io narrante.
Nelle raccolte poetiche scritte da giovane – Sulla terra e all’inferno è del 1957, In hora mortis e Sotto il ferro della luna del 1958 –, Bernhard sembra quasi anticipare questa caratteristica del suo stile, modellando un dire poetico che si basa quasi del tutto sull’anafora.
Basterebbe anche soltanto osservare il primo componimento della raccolta d’esordio, pubblicata da Crocetti, di gran lunga la migliore casa editrice italiana per quanto riguarda la poesia, nella traduzione di Stefano Apostolo e Samir Thabet. Il giorno dei volti (Der Tag der Gesichter) procede infatti in maniera cadenzata, costruito sull’ineluttabile memento «Domani è il giorno dei volti», che crea un’attesa sospesa e quasi insostenibile tra vita e morte, oscillando in bilico sul filo di una colpa che conduce inevitabilmente all’inferno – «Non c’è altra via!» scrive d’altronde l’autore.
Proprio la morte è uno dei temi trasversali a tutto il discorso poetico di Bernhard. Una morte che ha il suo primo germoglio nel nucleo famigliare – quasi vera e propria prefigurazione dei tanto odiati genitori, dell’inetto fratello e delle frivole sorelle di Estinzione – persistente presenza in absentia «Loro non ci sono più / io vorrei dormire / e sognare di loro, loro che mi / diedero carne e memoria, / il tempo nero della vita, / la fame di cervelli tristi / e profumo stanco delle foreste / e gloria marcia del mondo. / Io ora voglio dormire / e vedere la loro lapide».
Sempre la morte si insinua in ogni spazio, fino a colonizzare l’ambiente che più di ogni altro fa da sfondo ai versi di Bernhard, questo bucolico mondo che non ha nulla dei contorni ameni tradizionali della campagna, questo luogo che non rispecchia il tòpos della purezza contadina ma che è fatto di fallimenti, ubriachezze, rancori, ignoranza, aridità: «quel villaggio in cui m’insudiciano con le loro sentenze, / nella notte che ha il sapore del fieno della fame, / nell’ombra che divora la collina, / nell’oscurità dei blocchi di pensiero sui quali c’è il mio nome, il nome del mortale».
All’opposto di un paese descritto così cupamente, non si salva però neanche la città: «Ma cosa trovai nella mia capitale? / La morte con il suo muso di cenere, devastante, sete e fame, / ben fastidiosa per la mia fame, perché era / una fame di carne e pane, di volti e gabinetti, / una fame che balbetta l’infamia di questa città, / una fame di miseria, / luccicante da finestra a finestra, generatrice di primavera e gloria putrida / sotto le scale del paradiso»; una città dantescamente vituperio delle genti, in rovina, che intrappola e annichilisce – anticipazione delle tante ingiurie alle città austriache presenti nelle opere successive dell’autore, tra tutte la Salisburgo «malattia mortale» in L’origine, uno dei cinque volumi della sua autobiografia.
Tutto è distrutto e distruttivo allo stesso modo nell’universo di un Bernhard appena ventiseienne («Ventisei anni / come in sogno, un corale cantato male / sotto il vento d’aprile, / e nessuna casa e nessuna madre / e nessuna concezione di Dio, del Padre, la cui voce proviene dai salariati»), un ventiseienne che non ha mai conosciuto il padre, Alois Zuckerstätter; che non è mai riuscito a stabilire un rapporto vero con la madre; che ha odiato il collegio prima e il ginnasio poi, trascorsi senza amici né particolari propensioni per lo studio; che ha perso l’amato nonno; che è stato attraversato e permeato dalla malattia ed è da sempre consapevole di essere abbandonato alla sua esistenza di incomprensione e solitudine, «soffocato nella mia carne», ineluttabilmente conscio che «nessuno sente la mia voce che mi annienterà».
A conferma di questo pervasivo senso mortifero, la stagione più ricorrente è l’inverno, che si ripresenta di continuo con i suoi venti gelidi e la neve che ricopre i morti anche nella raccolta Sotto il ferro della luna (Crocetti, 2015). La poesia iniziale omonima ha un’eco celaniana, quasi fosse tratta da Papavero e memoria (Mohn und Gedächtnis, 1952): tutti i versi – che ancora una volta procedono sistematicamente per ripetizioni – ruotano infatti attorno a immagini care a Paul Celan, quali la luna, il vino, il sonno e un noi indefinito.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,
falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,
beviamo mosto e non sappiamo nulla,
presto saremo dimenticati
e i versi svaniranno come neve davanti alla casa.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
guardiamo nel bosco come nella stalla del mondo,
mentiamo e intrecciamo cesti per mele e pere,
dormiamo mentre le intemperie consumano
davanti alla porta le nostre scarpe infangate.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
non sappiamo nulla,
non sappiamo nulla del declino,
delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati
cavalli e uomini.
Nei versi delle due raccolte emergono poi continui strali contro il popolo austriaco ottuso e opprimente – il rapporto conflittuale con i conterranei è altro argomento prediletto delle sue narrazioni mature, tanto che Bernhard verrà spesso definito Nestbeschmutzer (“inquinatore del nido”) per le sue critiche sferzanti alla società austriaca e nel suo testamento scriverà: «Nulla, né di quanto pubblicato da me stesso in vita, né del mio lascito, ovunque esso si trovi, indipendentemente dalla forma in cui sia stato scritto, potrà essere rappresentato, stampato o soltanto letto in pubblico per la durata dei diritti d’autore all’interno dei confini dello Stato austriaco, comunque tale stato si definisca. Sottolineo espressamente di non voler aver nulla a che fare con lo Stato austriaco, e mi oppongo non solo a qualsiasi forma di intrusione, ma anche ad ogni avvicinamento di tale Stato austriaco alla mia persona e al mio lavoro – per sempre» –; requiem rabbiosi, salmi «per ricostruire Dio» e quasi un Cantico delle Creature apocrifo («la sera è mia sorella», «l’albero, che somiglia a mio fratello», «con le pecore ho patito la siccità. / Con gli uccelli ho cantato nei boschi»); percorsi di espiazione e tentativi velleitari di dimenticare e di non essere dimenticati.
Se a sprazzi Bernhard aggiunge maggiore espressionismo, a dominare restano comunque le solite malsane immagini, un acceso pessimismo e un sentore di annientamento individuale e collettivo.
Leggere queste poesie può essere un interessante aperçu dei temi che Bernhard saprà rendere monumentali e indelebili nelle sue successive opere di prosa: di certo questi due eleganti volumi Crocetti rappresentano un tassello necessario per conoscere appieno uno tra i più grandi autori del Novecento, che si scoprì scrittore proprio attraverso la poesia. Nel quarto volume della sua autobiografia, Il freddo (Adelphi, 1991), costretto a recarsi al sanatorio di Grafenhof Bernhard racconta così l’addio alla madre:
L’avrei rivista mai più? Lei era stata costretta ad ascoltare le mie poesie, io l’avevo sottoposta a un ricatto, avevo la certezza che le mie poesie fossero buone, prodotti di un diciottenne disperato che sembrava non avere più nulla all’infuori di quelle poesie. Già a quell’epoca mi ero rifugiato nella scrittura, scrivevo scrivevo, non so più, centinaia e centinaia di poesie, esistevo soltanto quando scrivevo, mio nonno lo scrittore era morto, adesso ero io che potevo scrivere, adesso avevo la possibilità di poetare per mio conto, osavo farlo, adesso, avevo a disposizione questo mezzo per raggiungere i miei fini, e allora con tutte le mie forze mi gettai nella scrittura, abusavo del mondo intero per trasformarlo in versi, quei versi, se pur privi di valore, significavano tutto per me, niente al mondo aveva per me maggiore significato, e io non avevo più niente, non avevo altro che la possibilità di scrivere poesie.