Gianmarco Canestrari
pubblicato 6 anni fa in Letteratura \ Recensioni

Il sabotatore di campane di Paolo Pasi

quando la memoria è più forte del presente

Il sabotatore di campane di Paolo Pasi

È sempre complicato tradurre in parole scritte quello che si prova o si esperisce leggendo un bel libro; non è facile nemmeno trascrivere per iscritto le emozioni vissute così come i sentimenti provati di fronte ad una storia coinvolgente e straziante allo stesso tempo. Stando alle parole del buon Calvino, un libro diventa classico o ha la strabiliante fortuna di essere annoverato tra le grandi opere dell’umanità quando ha ancora da dire di se, quando non ha ancora messo il punto alla storia che racconta o che cerca di far rivivere all’interno delle pagine che lo compongono, o quando la fantasia stessa del lettore continua a viaggiare o a far parlare la storia letta al di la della finitezza materiale del libro. Se teniamo ferma questa convinzione, se scegliamo come faro nel buio queste parole illuminanti di Calvino, direi che il “Il sabotatore di campane” di Paolo Pasi (Edizioni Spartaco, 2013) rientra senza ombra di dubbio nella categoria delle opere senza tempo. Tempo che è l’indiscusso protagonista della vicenda ambientata nel minuscolo ma vivace paese di Roccapelata, la cui vita e le cui giornate sono scandite e controllate proprio dal ticchettio degli orologi sferzanti sulla sommità del campanile. Quest’ultimo diventa il “luogo” privilegiato attraverso cui il tempo può far parlare di se o, per dirla con toni più accesi, attraverso cui il tempo può esercitare la sua eterna ed inveterata azione: controllare o, meglio ancora, condizionare. Condizionare le vite, i lavori, le attività, i ritmi delle stagioni, le festività; in pratica tutto ciò che è di dominio umano e che per questo è soggetto al divenire e alla concretezza esperienziale. Il tempo parla per bocca delle campane; giudica con il rintocco delle campane; indirizza gli animi per mezzo delle campane. Queste ultime diventano così lo “strumento del potere del tempo” che inevitabilmente condiziona e segue le vite degli esseri umani. Non ci si può liberare del tempo e del suo scorrere: di ciò ne sa qualcosa Gaetano Gurradi, l’anarchico orologiaio protagonista della vicenda. La sua vita è interamente vissuta nel tempo e col tempo: anzi potremmo dire che tutta la sua esistenza è stata una lotta contro il tempo, o perlomeno contro il tempo presente che dimentica, annichilisce, svilisce e getta nell’oscurità il passato che lo ha formato.

Dal tempo non si sfugge: è questo che anima l’inquieto protagonista dal passato libertino e dalle idee rivoluzionarie. Non si può cancellare ciò che è stato: è questo che tormenta ed interroga la vita ormai vissuta di un anziano orologiaio che crede ancora in un disegno (per molti utopico) da portare avanti per liberare gli uomini dalla “furia temporale” che attanaglia le loro misere esistenze e che vuole invece indurli a fermarsi. Fermarsi per riflettere, per interrogarsi, per cercare senso a ciò che è stato e ciò che si ha di fronte. È quello che capita a lui nel bel mezzo del suo piano “salvifico”: riflettere bene, ricordarsi con estrema chiarezza ciò che ha portato alla morte dell’ambiguo parroco del piccolo paese. Il suo è però un riflettere quasi obbligato che può servirgli per discolparsi dall’accusa di omicidio che pende sulla sua testa come una lama tagliente pronta a cadere e fendere la sua “fedina” in ogni momento. Non è facile pensare, non è facile ritornare indietro nei ricordi, soprattutto quelli dell’infanzia, quando tutto sembrava semplice od ovvio ai suoi occhi: il padre, la fede nell’anarchia, i compagni, i viaggi, ma soprattutto Emma.

Allo stato attuale, dove si ritrova imputato per omicidio, rinchiuso in cella, sorvegliato ed osservato dal potere, sembrava che tutto fosse finito, che tutto avesse preso una piega diversa da quella desiderata, che tutto fosse stato in mano a quei potenti che tanto aveva combattuto fin da giovane e contro cui aveva dedicato tutta la sua vita. Il suo scopo era fermare il tempo che distrugge e dimentica, invitare a ricordare, anche solo per un minuto, le “vittime del potere”, gli esclusi della società, coloro che erano morti sotto l’egida di una ideologia totalitaria che schiaccia ed annienta le coscienze. E ciò presupponeva ammutolire lo strumento di comunicazione del tempo (che scandisce e controlla tutto) più ovvio e naturale che esista: le campane. Quest’ultime erano ai suoi occhi veri e propri “dispositivi” (per dirla con Foucault) in mano al potere per orientare, condizionare, dirigere e influenzare le coscienze degli uomini asserviti. Bisognava azzittire la “voce di Dio”, l’ ugola attraverso cui la parola di Dio si espande e raggiunge ogni angolo del mondo. Attraverso ricordi sfocati, ma che a tratti si facevano vividi, le campane si mostravano alla sua mente non più come l’espressione gioiosa del volere divino, ma come il mezzo più adatto attraverso cui i poteri forti cercavano di ammaliare coscienze ignare di ciò che li attendeva. Zittire per far rivivere il ricordo di chi non c’era più, di chi aveva dato la vita per la libertà del paese e che per tal nobile motivo era caduto vittima della mano invisibile dell’autorità. Ecco allora perché fermare quel magnifico ed intrigante ma allo stesso tempo ambiguo strumento, che non suonava più per gli “eroi della libertà” ma per gli “asserviti del potere”. Sono tanti i temi e gli argomenti che suscita la lettura di questo libro; tante le storie narrate, le vite raccolte, i sogni infranti, le attese invocate con ardore. Ma la cosa sensazionale ed innovativa di questo libro è il fatto di aver saputo coniugare con estrema chiarezza e maestria, i due lati dicotomici della realtà: mondo quotidiano e mondo della fantasia; realtà di tutti i giorni e realtà extra-ordinaria; brutalità del divenire quotidiano e utopia armonizzante. Realismo ed idealismo, avventura e tinte noir fanno di questo romanzo un unicum ineguagliabile nel panorama letterario contemporaneo.

 

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