Sai osservare una perlina sul fondo?
Bohumil Hrabal, "La perlina sul fondo"
Perlička na dně, in cecoslovacco, La perlina sul fondo: una raccolta di dodici racconti che Bohumil Hrabal, autore riconosciuto nella tradizione letteraria novecentesca, morto probabilmente suicida nel 1997, riuscì a pubblicare, finalmente, nel 1963, dopo molte e dolorose peripezie editoriali.
Scrittore, finalmente, dopo aver svolto molti altri lavori, per mantenersi… e soprattutto sopravvivere, in una Cecoslovacchia culturalmente spenta (nel 1975, ad esempio, Milan Kundera aveva preso la decisione di andarsene). Più di metà della propria vita era già trascorsa, come racconta lo stesso autore nel breve paravento introduttivo che prelude a questa raccolta: attraverso l’esergo, egli sembra voler consegnare al lettore i suoi racconti, ma in realtà, a scrivere questa introduzione, fu costretto dall’editore. Hrabal lo fece: quelli erano in effetti i primi suoi racconti, scritti negli anni ’50 e pubblicati circa quindici anni dopo.
Anni fa, quando ho scoperto qual era la direzione del mio cuore, mi sono incamminato verso il mondo amico, ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale.
Il riconoscimento, in parte mancato, della sua produzione, per certi versi continua, se si pensa che questa sua Skřivánek na niti, ovvero L’allodola legata al filo (in origine, questo era il titolo), la sua prima opera compiuta e completa, è stata solo da poco tradotta in italiano, benché un Meridiano gli fosse stato dedicato nel 2003: Miraggi edizioni propone questa “perlina sul fondo”, con una traduzione meticolosa di Laura Angeloni e una postfazione (e cura) dello studioso di letteratura ceca Alessandro Catalano.
L’operazione di recupero critico e l’intervento editoriale rendono però, questa, una sorta di edizione critica, considerato l’approfondito lavoro di notazione e commento, per i riferimenti, spesso non immediati da cogliere, a espressioni proverbiali, oppure a giochi lessicali, o ad altri rimandi, certamente non del tutto fruibili senza il maieutico intervento critico, da parte di chi – e siamo in molti – non conosce determinati aspetti della tradizione culturale novecentesca cecoslovacca (a cui l’intera collana NováVlna è dedicata). Risulta evidente, comunque, la meraviglia di queste perline sul fondo, l’espressione mediata dal pensiero del filosofo Jakob Böhme, vissuto tra Cinque e Seicento, che Hrabal definiva “ciabattino e filosofo”.
Va fatta ancora una notazione biografica. Collegata, naturalmente, ai fatti storici che attraversarono la sua terra. Nato nel 1914, venticinquenne, Hrabal visse l’invasione nazista: anche questa notazione è indirettamente legata alle caratteristiche innovative delle sue scelte stilistiche (da alcuni critici viene, infatti, avvicinato a Rabelais). A cinque anni dalla pubblicazione di questa raccolta, dopo il brevissimo periodo della Primavera di Praga, dal 1968 in avanti, fino alla trasparente glasnost della fine degli Ottanta, le sue opere conobbero, nuovamente, l’orrore della censura, la “normalizzazione”, il silenzio, come molte altre. Solo nell’ultimo ventennio del secolo scorso, infatti, egli poté nuovamente pubblicare i suoi testi, riprendendone alcuni già composti, componendone altri, e quindi riuscire a fare emergere la propria cifra letteraria, non più carsica e strozzata nell’impotenza, poiché destinata, come a lungo fu, alla clandestinità.
Anni dopo, quello stesso titolo, ma al plurale, Le allodole sul filo,
fu poi utilizzato in un famoso film di Jiří Menzel, tratto da racconti di Hrabal, che sarebbe dovuto arrivare nelle sale ceche nel 1969 ed è invece rimasto sottochiave fino al 1990, quando ha poi vinto l’Orso d’Oro a Berlino (A.Catalano).
Scrive Hrabal:
Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano. È stato allora che ho cominciato ad amare quelli a cui nessuno dà più fiducia e di cui tutti si lavano le mani.
L’idea espressa ancora una volta dall’autore è quella di un discorso in un certo senso “prodotto dal basso”, ovvero da una voce (sia per i temi dei racconti, sia per la ricerca lessicale) che pare provenire dai personaggi stessi, definiti con un neologismo pábitelé, ovvero “stramparloni” (Catalano tuttavia sottolinea come queste siano «celebri figure a cui in modo un po’ riduttivo è comunemente legata questa prima fase dell’opera di Hrabal»).
Chi sono gli stamparloni? Sono – o sembrano – incontri fortuiti, a volte surreali, situazioni al limite del paradosso, che si vengono a creare in una chiacchierata in birreria, in un’acciaieria, in un deposito di carta da macero, in un ufficio di assicurazioni, che vedono forse come protagonisti i personaggi che Hrabal ha conosciuto, lavorando, oppure ha osservato in altri contesti del suo privato, personaggi che hanno generato la scintilla di una storia. Che si tratti di fatti vissuti o immaginati, l’autore afferma però con chiarezza che elettivamente preferisce i “rozzi” ed i “buffoni” perché, forse trattenuti dal pudore, non mostrano i loro sentimenti e che però
… sotto l’impulso di un momento o di una circostanza, si sono di colpo strappati la camicia e mi hanno mostrato il cuore, su cui ho visto incise con la punta di un diamante le questioni su cui meditano i filosofi. È per questo che amo i luoghi pieni di gente, dove si tornisce la lingua madre, si creano nuove parole, si affinano i gerghi e si approfondiscono i miti, quando le persone chiacchierando si interrogano a vicenda su chi sono o su chi vorrebbero essere.
Queste situazioni umane sembrano volersi frapporre fra autore e lettore, per consegnarsi, quasi come strappate dalla quotidianità, alla memoria della lettura, in aperto contrasto con un’inconsueta, straordinaria ricerca del dettaglio – ma è altrettanto chiaro che, questo che leggiamo, non sia affatto un semplice inventario di personaggi o incontri quello che Hrabal ha voluto consegnare al racconto, ma molto (molto) di più. Il motivo principale di questa forzata presentazione dei racconti era mediare quella materia narrativa, non sempre lineare e facile da metabolizzare (ma, proprio per questo motivo, potentissima).
I dodici racconti affrontano temi diversi e, come spesso accade per le raccolte di narrazioni brevi, sono caratterizzati da un rimbalzo interno fra tratti di omogeneità, qui appunto legata (ma non solo) a varie prospettive di stramparlonaggine. Incontriamo molte situazioni – tratteggiate con levigata precisione – e molti, moltissimi dialoghi stramparlati, che a volte sfiorano il grottesco, la commedia, l’invettiva, con punte di macabro, di surreale, ma anche, spesso, vengono come sommersi, e sublimati, da lirismo, malinconia, dolcezza, e, più in generale, quasi dal desiderio di trattenere, nelle parole, l’inquietudine.
Forse per racchiuderli tutti basta accennare ad uno di questi racconti, anche per non togliere il gusto della lettura. Sceglierei quello iniziale – un incipit che apre la strepitosa sequela degli altri – in cui l’autore pare giochi a essere sé stesso: nel racconto Corso serale, con una serie di perfetti incastri narrativi, Buhomil Hrabal ci fa partecipare ad una guida per prendere la patente per la moto, insieme ad un istruttore, seduto, con l’autore stesso, sul sellino della moto (o almeno, così ci pare). Il tutto, mentre lo scrittore svolta, rallenta, accelera, sbaglia, ferma ed ingrana la marcia, e tutto questo, ripensando anche a suo padre. Come ci riesce? Così:
«Bene, sigaretta finita. Venga, si parte!» disse l’istruttore.
Tolsi il cavalletto alla moto e con la scarpa lo incastrai nel fermo.
«Allora, Hrabal, ripetiamo. Come prima cosa giriamo la chiavetta dell’accensione. Il cambio di questa moto è un po’ diverso da quello della sua Čezeta.»
«Ma tanto io non l’ho mai guidata… non ho la patente, lo sa.»
«Certo, le sto facendo un discorso, diciamo, teorico. Dunque, la prima in su, la seconda, terza e quarta in giù, quando innesta la marcia deve sentire lo scatto. E accenda i fanali!»
Schiacciai più volte il pedale, saltai su con la gamba e voltai la testa.
«È seduto, signor Fořtík?»
«Sì, ma guardi, le si è spenta. Deve dare più gas quando parte, e dando gas rilasci pian piano la frizione. La faccia ripartire…Così non le si accenderà mai!»
«È vero! Sono in prima» arrossii, col collo del piede misi in folle e poi riaccesi. La moto lanciò un tale ruggito che mi sembrò di avere puntati addosso gli occhi di tutta quella Praga serale, anche se in quel momento non passava nessuno. E appena inserii la prima il mondo cominciò a girare dolcemente.
Il signor Fořtík si accostò alla mia schiena e sussurrò: «Hrabal, si rilassi… dia gas, ora si giri a controllare che non stia arrivando nessuno da dietro…, dia il segnale con il braccio che si sta immettendo nella corsia…, lasci la frizione… bene, e ora giri a sinistra. E metta la seconda! Ora freni, guardi bene a destra e sinistra, c’è un segnale di precedenza, giri a destra. Sulla Kaprova. Tiri fuori quel braccio… di più, ancora! Fino in fondo, così sembra che voglia grattarsi il ginocchio o aggiustarsi la giarrettiera… ora abbiamo perso velocità, dunque metta la prima, poi la seconda, la terza… basta un tocco con la suola… passi accanto al Nuovo Municipio, verso la piazza della Città Vecchia, segnali col braccio che ci stiamo dirigendo verso l’orologio e controlli che dalla Pařížská non arrivi nessuno… così. Attenzione alle rotaie scivolose, in particolare dopo che ha piovuto… ecco siamo sul selciato… sulla piazza giri a sinistra. Attento! Dalla direzione opposta non sta arrivando nessuno, dietro non ci sono tram…, svolti in Dlouhá třída… Non è mai caduto con suo padre?» (pp. 11-2).
di Teresa Capello