Salvate Nazim Hikmet
dalla tradizione turco-ottomana ai legami supernazionali in nome di una cultura franca
La sua esperienza poetica è nata in seno a una tradizione antichissima e illustre, ch’egli sin dall’infanzia poté contemplare da molto vicino: suo nonno, Nazim Pascià, era poeta e scriveva in lingua turca ottomana, lingua che Hikmet non comprendeva ma della quale percepiva il fascino arcaico ancora punteggiato di tratti persiani e arabeggianti. Ne ritroviamo alcune tracce ed influssi nella metrica che sceglie per i suoi primi componimenti, ovvero quelli più spontanei: l’aruz, metrica di origine arabo-persiana, è per lui il primo solco in cui versare il suo contenuto poetico, la prima forma ch’egli cerca per esprimersi. In seguito, vi sarà nella sua produzione un’interessante e fruttuosa convivenza di componimenti in metrica tradizionale arabo-persiana, come il rubai, ed altri che invece presentano una metrica turca di tipo sillabico, affermatasi nel primo Novecento grazie a Mehmet Emin. Questi fu tra i primi ad allontanarsi dai modelli ottomani, e ispirò notevolmente Hikmet con la sua poesia: da essa egli raccolse l’entusiasmo patriottico e alcuni temi relativi al nascente nazionalismo turco, in funzione del quale la scelta linguistica assume un valore e significato essenziale. Un altro autore che favorì l’emergere della sua vocazione è Tefik Fikret; sebbene scrivesse in ottomano, i suoi temi erano moderni e in linea con l’ideologia che col tempo si radicherà in Nazim Hikmet: lui stesso ne parlerà definendolo “il nostro primo poeta umanista. Forse anche un po’ socialista utopista: il nostro primo poeta che scrisse versi contro la guerra e contro la religione”. Tuttavia, è senza dubbio nel 1921 che la sua poesia assunse la densità tematica e stilistica che tutti noi conosciamo, abbracciando la causa del comunismo sovietico. Quando, obbligato a lasciare la Turchia per motivi politici (come la sua denuncia del genocidio armeno), si rifugiò a Mosca, vi conobbe Esenin e Majakovskij e incontrò lo stesso Lenin,
scoprì la vera e bruciante necessità di scrivere. Il corso della sua vita e delle sue opere si inserì così in un ampio reticolo di esperienze umane, lotte e visioni comuni: l’Unione Sovietica e gli ideali comunisti sono il terreno fertile in cui trovò lo scopo della propria poesia e, in ultima analisi, anche quello della propria esistenza. Questo reticolo, culturale e letterario oltre che politico, non era astratto bensì identificabile con persone che concretamente entrarono a far parte della sua vita; in particolar modo, le relazioni che strinse con altri poeti e artisti negli anni che seguirono si rivelarono fondamentali, e dimostrarono come fosse possibile un’unione intellettuale – ma ancor prima umana – al di sopra delle divisioni territoriali e nazionali. Fu uno di essi, Pablo Neruda, a raccontare l’ingiustizia a cui Nazim Hikmet fu sottoposto una volta tornato in Turchia: “accusato di aver tentato di incitare l’esercito turco alla ribellione, Nazim è stato condannato alle punizioni più terribili”. E ancora: “Il mio fratello poeta ha sentito le sue forze mancare: i miei aguzzini vogliono vedermi soffrire. Resiste con orgoglio. Comincia a cantare, all’inizio la sua voce è bassa, poi sempre più alta fino ad urlare. Ha cantato tutte le canzoni, tutti i poemi d’amore che riesce a ricordare, i suoi stessi versi, le ballate d’amore dei contadini, gli inni di battaglia della gente comune. Ha cantato qualsiasi cosa che la sua mente ricordasse. E così ha vinto i suoi torturatori”. Capiamo che la rete data da questi legami è qualcosa che può realmente salvare, soccorrere gli amici, i compagni, raccogliendo la
loro voce quando ad essi è negata la possibilità di parlare. E sarà proprio una schiera di questi amici intellettuali a sottrarre Hikmet al carcere: nel 1949, una commissione internazionale formata da Neruda, Picasso, Tristan Tzara, Sartre e Paul Robeson intervenne in favore della sua liberazione. Ci troviamo come di fronte a una costante lotta che queste figure – che incarnano i valori della libertà, della solidarietà intellettuale, della cultura come zona franca, custode di quella verità puramente umana e quell’unità che precedono ogni divisione – portano avanti contro coloro che tentano invece di imporre repressione e censura. Il tentativo di repressione non termina certo con la sua scarcerazione: il governo tenterà di eliminarlo con degli attentati, prima, e poi con un espediente a dir poco meschino, come apprese dalle sue lettere Simone de Beauvoir: “mi raccontò che nell’anno successivo alla sua liberazione su
bì due attentati, con le macchine, nelle vie di Istanbul. In seguito provarono a costringerlo a fare il servizio militare nella frontiera russa: aveva quasi cinquant’anni”. Intendevano cioè mandarlo a combattere, contro la Russia, nonostante le gravi condizioni di salute in cui si trovava, dando al medico militare che lo visitò precise indicazioni: lo stesso Hikmet rivela che gli fu detto: “lei non è in condizione di sopravvivere più di un’ora sotto il sole del deserto, eppure io ho pronto per lei un certificato di buona salute”. Salute che s’aggraverà ancor più in seguito al suo disperato tentativo di fuggire da Istanbul per mare, nel 1951, nel pieno di una tormen
ta. A bordo di una piccola barca a motore, egli avrebbe di certo perso la vita nel Bosforo se non avesse incrociato quella nave romena che dopo qualche titubanza decise di prenderlo a bordo riconoscendo in lui il celebre poeta. Sulla nave Hikmet scoprì uno dei manifesti che la commissione internazionale – i suoi amici, la sua rete di salvataggio – aveva diffuso due anni prima, quando chiedeva la sua scarcerazione. Grazie a quel manifesto, la cui scritta ancora recitava “Salvate Nazim Hikmet”, fu riconosciuto dal capitano quel giorno. Grazie a loro, ancora una volta, fu salvo.
Articolo a cura di Elena Cappai