Samuel Beckett – “L’ultimo nastro di Krapp”
“Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro”. Krapp immobile guarda fisso davanti a sé. Il nastro continua a registrare in silenzio.
Queste le ultime righe di una pièce che Robert Kanters definì nel 1960, al suo debutto sulla scena, un vero e proprio «poema lirico della solitudine». Lo è tuttora. Beckett racchiude in un solo atto il tramonto di un’esistenza, la rassegnazione di un uomo ormai vecchio bloccato nelle sue sterili abitudini e impotente di fronte allo svanire di un sogno e al senso di una vita.
La vocazione alla scrittura di Krapp, quella per cui a trentanove anni aveva rinunciato all’amore di una donna, si è ridotta – esattamente trent’anni dopo – al vanto di diciassette copie vendute di quello che già al tempo doveva essere il suo opus magnum, e che ora si mostra come la prova del suo fallimento. Al «vecchio sfatto», ormai quasi settantenne, rimangono solo un registratore e le sue bobine, quelle su cui ogni anno in occasione del suo compleanno ha inciso il racconto della propria vita.
In un dialogo estremamente drammatico tra presente e passato, tra uomo e registratore, sia il lettore che il protagonista hanno bisogno della voce di una macchina per conoscere la storia: il primo perché non sa nulla di Krapp, il secondo perché fatica a ricordare (o non vuole). Leggendo il titolo della bobina numero tre della scatola numero cinque, Krapp appare inizialmente disorientato. «Memorabile equinozio? Addio all’amore?».
I ricordi, sistematicamente registrati e catalogati per anni, riemergono poco a poco, procurandogli un’inutile sofferenza. Perché allora continuare con questa abitudine? Forse solo per deridere il giovane che era un tempo? Non è questo il suo scopo, non lo è mai stato. Krapp è spinto dalla stessa volontà che muove gli artisti: lasciare tracce di sé e trasformare la propria vita in un’opera d’arte.
Non a caso sono diverse le interpretazioni che vedono quest’opera come una riscrittura completamente ribaltata della Recherche di Proust: mentre in quest’ultima c’è la realizzazione di uno scrittore a partire dalle potenzialità della sua infanzia, ne L’ultimo nastro di Krapp assistiamo alla sua parabola discendente, al tentativo fallimentare di un percorso creativo. Questo perché Beckett ha bisogno di dar voce, attraverso il suo personaggio, a un’altra epoca storica: il passaggio dal successo di Marcel al naufragio di Krapp non è altro che la transizione dal modernismo al post-moderno, dove alla fiducia nelle capacità artistiche si sostituiscono l’alienazione dell’individuo e la sensazione di incompiutezza.
Attraverso questa figura grottesca, goffa nelle movenze, meccanica nei gesti e limitata nelle parole – come sempre nei componimenti teatrali di Beckett è il silenzio a parlare – il lettore/ascoltatore assiste con impotenza e sofferenza alla ridicolizzazione dell’artista: Krapp non rappresenta infatti solo l’insuccesso di uno scrittore, ma il disancoramento dell’uomo contemporaneo.
Ma da cosa è causato il fallimento di Krapp? Il paragone con la Recherche ci mostra ciò che accade quando il soggetto non lascia spazio alla memoria involontaria (l’unica secondo Proust a essere veramente sincera e utile per l’uomo), ma al contrario si ossessiona a far riemergere i ricordi tramite quella volontaria, non aprendosi alla novità. È quindi la casualità dell’incontro con un oggetto, con un’immagine o con una sensazione fisica ed emotiva a riattivare i nostri sensi e subito il ricordo, e non lo sforzo vano di evocare il passato.
L’immaginazione e la corporeità, ci insegna Proust, sono costantemente intrecciate tra loro. Saper sognare, saper vivere l’istante presente è ciò che permette all’artista di approdare ad una spontanea creatività, mentre Krapp, incastrato tra le sue bobine, non può accedere ad alcuna vera rivelazione.
In Proust, saggio scritto nel 1931, Beckett spiega per la prima volta l’importanza dell’abitudine nella Recherche e analizza il legame consequenziale che sussiste tra questa e la rivelazione:
Le leggi della memoria sono soggette alle più universali leggi dell’abitudine. Quest’ultima è un compromesso tra l’individuo e il suo ambiente, o tra l’individuo e le sue innate eccentricità, il garante di una sorda inviolabilità, il parafulmine della sua esistenza. La vita è abitudine. La creazione del mondo non si è compiuta una volta e per sempre, ma avviene ogni giorno.
L’abitudine è una tregua, un patto che l’individuo mette in atto con l’ambiente attorno a sé per proteggersi dal continuo cambiamento e dalla sofferenza del reale. Ma questo schermo protettivo impedisce la vera conoscenza e costituisce un blocco per lo scrittore, che ha il compito di aprire il sipario e svelare la verità.
Se è vero che Krapp rimane fermo in una meccanica ripetizione (e il registratore ne è proprio l’emblema), un momento di illuminazione c’è, e lo si ascolta nella registrazione passata. È il giorno del «memorabile equinozio», uno dei momenti centrali dell’opera. Lo spettatore però non scoprirà mai di cosa si tratta, non è tenuto a sapere nulla: l’anziano Krapp interrompe il nastro e lo fa scorrere in avanti, consapevole della sua sconfitta.
Una sconfitta non solo professionale, ma anche personale: l’episodio è reso ancora più drammatico dal successivo «addio all’amore». La separazione dalla donna amata per dedicarsi alla scrittura è l’inizio di una solitudine dolorosissima per Krapp, a cui non resta ora che il ricordo perduto dei suoi occhi.
Ho ripetuto che secondo me non avevamo speranza, che era inutile continuare, e lei ha fatto segno di sì, senza aprire gli occhi. Le ho chiesto di guardarmi e dopo pochi istanti… dopo pochi istanti lo ha fatto, ma gli occhi erano due fessure per via del sole. Mi sono curvato su di lei per farle ombra e allora si sono aperti. M’hanno fatto entrare.
Non appena il registratore evoca in lui tale immagine, Krapp medita e incide nel presente il suo ultimo nastro: «I suoi occhi! C’era dentro tutto, ogni e qualsiasi cosa». Così, nel continuo schernire l’uomo che era un tempo, con le sue illusioni e le sue convinzioni, si insinua lentamente un solo rimpianto: aver rinunciato all’unica vera felicità possibile.
La figura di Krapp sembra ora ricomporsi: impossibile dissociarsi completamente dall’io del passato quando, insieme ai vecchi ricordi, le registrazioni testimoniano anche le stesse abitudini e la stessa inquietudine. E mentre pronuncia le ultime parole: «cerca di essere, cerca di essere», consapevole di non poter aggiungere più nulla al diario della propria vita, Krapp arriva all’accettazione finale della propria identità, messa in crisi dal tempo e dai limiti di un registratore.
L’ultimo nastro di Krapp esprime a pieno la drammaticità e l’anticonformismo del teatro dell’assurdo, l’unica forma capace di declinare il senso di impotenza della parola di fronte all’irrazionalità dell’esistenza umana e di restituire quello che secondo Beckett è il paradosso della scrittura: mentre tenta di spiegare e di dare voce all’angoscia e alla solitudine, essa rivela solo la propria incapacità.
Il dialogo viene quindi sostituito da un silenzio scenico, da personaggi in carne e ossa che riportano concretamente il disagio e la fragilità di un individuo solo contro il tempo. È soprattutto attraverso le pause, i sospiri, le imprecazioni, gli sguardi immobili e le risate isteriche che il fruitore coglie il vuoto che avvolge l’esistenza di Krapp; mentre un palco quasi interamente buio lo accompagna in questo viaggio nei ricordi e nell’oblio.
Con uno stile personalissimo che mescola umorismo e liricità, commedia e tragedia, Beckett regala al pubblico uno degli atti teatrali più originali del Novecento, un’opera che anticipa con grande lungimiranza l’era dei mass-media e che pone al centro, sotto una luce completamente nuova, lo struggimento dell’artista in conflitto con la propria arte.