“Sangue e viscere al liceo” di Kathy Acker
un’iniziazione alla vita
Disgiunzione formale e continuità emotiva. Contraddizione eterna e plausibilità assoluta. Sangue e viscere al liceo di Kathy Acker, romanzo pubblicato nel 1984 e adesso portato in Italia dall’editore LiberAria nella traduzione di Claudia Durastanti, è questo e altro. Un libro multiforme, che non tenta di nascondere il caos creativo ma anzi lo disfa e lo ricrea continuamente fino a raggiungere insperati risultati.
Proprio come questo libro, anche la sua autrice fu multiforme e caleidoscopica: Karen Lehman, diventata per tutti Kathy Acker, nasce in una famiglia di New York City della classe medio-alta nel 1947 – sebbene, come riporta anche Tiziana Loporto nella prefazione al volume, ci siano discordanze sul suo anno di nascita – e muore a cinquant’anni nel 1997, in seguito alla scelta di non proseguire, dopo essersi sottoposta a una doppia mastectomia, con le cure mediche per il cancro al seno da cui era affetta.
Quella di Acker è una figura che in molti hanno cercato di incasellare in una categoria, senza alcun successo; vista «con un misto di ammirazione, disgusto e invidia», come scrisse la sua biografa Chris Kraus (la quale ha firmato il volume After Kathy Acker: A Literary Biography), diede in pasto ai lettori un libro inclassificabile ed esplosivo in cui sesso, incesto, aborto, droghe e rapimenti sarebbero potuti passare in secondo piano davanti alla genialità dei suoi contenuti che si piegano dinanzi alla forma.
Protagonista è la giovanissima Janey Smith.
Non avendo mai conosciuto una madre, dato che la madre era morta quando Janey aveva un anno, Janey dipendeva in tutto e per tutto da suo padre e trattava suo padre da fidanzato, fratello, sorella, soldi, divertimento e come un padre.
Janey vive con lui a Mérida, città messicana che fa da sfondo alla relazione incestuosa che ci viene presentata all’inizio del romanzo in modo originale e inaspettato: un dialogo scritto come fosse un soggetto teatrale, con tanto di didascalie tra le battute. Lui – il genitore – si è innamorato di un’altra donna, Sally, e Janey non ha più ragioni di restare, come se nulla fosse cambiato, con quel padre, quel fidanzato, quel fratello; è meglio andarsene, disintossicarsi, partire per New York.
Per Janey tutto passa attraverso il corpo, che viene martoriato indistintamente per propria mano o per mano altrui, con una violenza proporzionale alla necessità di sentirsi vivi, di radicarsi alla realtà. Con l’arrivo a New York, le frequentazioni con i cosiddetti Scorpion paiono inevitabili; non potrebbe frequentare damerini e figli di papà: la sua platea è fatta di «disperati, il risultato di famiglie sfasciate, della povertà», proprio come lei, che si è trovata immersa nella «merda» e in quella merda ha imparato a esistere.
Anche il suo lavoro in una panetteria si trasforma in una bomba a orologeria pronta a scoppiare in faccia a hippie bionde, mezze-prostitute, obese e vecchi raggrinziti, in un climax di disprezzo generico e contagioso che si riversa furioso e implacabile come un Blob dei giorni nostri.
Le future scorribande in cui si troverà invischiata sono accettate e comprese da chi legge, come davanti a un’imminenza necessaria cui Janey non può sottrarsi. Ogni evento però non ha ragione di esistere in quanto tale, il suo valore è tanto più alto quanto più volte viene interrotto dall’estro creativo di Acker, che irrompe nella trama per disegnare una mappa dei sogni della sua protagonista o per dare spazio alla triste storia del Mostro inguardabile e del Castoro. E quando Janey si ritrova in Persia, venduta da rapitori come prostituta, non c’è proprio nulla di strano, neppure quando in Marocco compaiono senza alcun preavviso il presidente Carter o Jean Genet.
Il fascino provocatorio di Acker risiede nella perfetta illusione del caos che mette in piedi: ciò che a prima vista sembrerebbe risultato di un’accozzaglia di ritagli, frammenti ripescati dalla memoria o da vecchie carte conservate e saltate fuori per caso, è studiato invece fin nei minimi dettagli. Così, in un nuovo stravolgente episodio della sua vita, Janey diventa Hester, la donna col marchio rosso del peccato di Hawthorne.
Chi discute la promiscuità di Janey (e di Kathy) non ne coglie l’assoluta verità delle parole: la condizione delle donne sedute in una sala d’aspetto in attesa di sottoporsi all’ennesimo aborto; lo sguardo giudicante delle persone che la considerano solo spazzatura; il sesso come bisogno d’amore. Il risultato è raggiunto grazie all’uso alternato della prima e della terza persona con la maggiore naturalezza possibile perché, come ricorderà alla fine del volume, al posto di questa Janey ne nasceranno molte altre («Presto nacquero tante altre Janey e queste Janey si sparsero per la terra»).
Il continuo spostamento del racconto tradizionale all’opera teatrale crea un pastiche arricchito ulteriormente dalle numerose illustrazioni che compaiono tra le pagine, che basterebbero da sole a fornire ai posteri una versione non edulcorata del valore artistico di questa autrice. Acker si rifà anche ai modelli del passato, metabolizzandoli e rielaborandoli: il mito di Medea, le poesie catulliane sono ingoiati e sputati, per dar vita a un capolavoro che andrebbe letto e riletto, un libro capace di rivelare, ogni volta, un nuovo significato. Ogni parola, ogni simbolo, ogni disegno è parte della costruzione dell’identità, è il prolungamento su carta della corporeità di chi scrive, espressione di un’idiosincrasia congenita alla vita considerata “normale”.
Non soltanto Sangue e viscere al liceo, ma tutta l’esistenza di Acker ha a suo modo sconvolto l’establishment intellettuale. Nel 1984 «The New York Times»pubblicò il contributo di Roy Hoffman su questo libro: nell’articolo si rimproverava ad Acker di non aver provato in nessun modo a disinnescare la violenza di cui Janey (e di riflesso tutte le donne) era stata vittima, ma di sostare anzi nella sua descrizione in una sorta di patetismo («You whine and snivel. You don’t stand up for yourself…» «Ti lamenti e piagnucoli. Non ti difendi da sola…»).
Ma questo libro picaresco fa esattamente il contrario: non occhieggia a nessuno sguardo consolatorio, non si compiange, asseconda la pazzia perché ne fa parte.