“Schikaneder e il labirinto” di Benedetta Galli
Non sono mai fuggito dalla realtà, io. La realtà mi piace. Mi piace ficcarci dentro le mani e riplasmarla.
Emanuel Schikaneder, voce unica del romanzo d’esordio di Benedetta Galli Schikaneder e il labirinto (Del Vecchio editore), è il protagonista di un monologo che, per molti aspetti, dà forma a un’allegoria: sostenuta da una dialettica costruita su opposti, parallelismi, sostituzioni e identificazioni, elaborata attraverso il linguaggio dell’ossessione, la storia di Schikaneder e della genesi dell’opera Il labirinto diventa emblema dell’accettazione della fine. È la conquista della conoscenza, non tanto rispetto al possesso quanto all’abreazione di una perdita, massimizzata nel suo elemento spettacolare.
Il teatro Freihaus di Vienna, codiretto da Schikaneder e dalla moglie Eleonore, è a rischio fallimento. Sono passati sette anni dal debutto di Il flauto magico (Die Zauberflöte), e sette dalla morte di Mozart; ora va in scena Das Labyrinth, Il labirinto: di fatto il secondo quadro dell’opera mozartiana, musicata stavolta dal compositore Peter Winter.
La scelta di Winter, uomo duro e bizzarro, noto più per la sua fobia dei fantasmi che per le sue doti di compositore (e di imitatore, in questo caso), è dovuta a una ragione pratica: Schikaneder gli deve dei soldi, e non ha intenzione di privarsi di alcunché per estinguere il debito. Inoltre, l’alternativa sarebbe stata quella di affidare la composizione delle arie a Benedikt Schack, già Tamino in Il flauto magico, al quale Schikaneder non ha il coraggio di confessare che lo ritiene un musicista meno che mediocre.
Le prove cominciano, ma Peter Winter non è un uomo facile. Il gruppo di attori del Freihaus, compagine di artisti discotinui, persone legate fra loro quasi come un gruppo di mutuo soccorso, a poco a poco si sgretola. La microsfera del Freihaus, un goffo diorama in cui ciascuno ambisce suo malgrado ad assumere il valore di simbolo antropologico e sociale, non sopravvive alla rottura delle già fragili dinamiche che facevano da collante; l’illusione di Schikaneder, cioè non tanto tenere in vita l’opera di Mozart, quanto sfidare la morte in una replica della sua musica ora privata dell’anima, svela presto la sua essenza rivendicatoria: riappropriarsi del potere di manipolare la realtà, di piegarla ai propri obiettivi e alle proprie visioni; un potere che ormai non possiede più.
Davanti al suo pubblico, Schikaneder non si nasconde, e non nasconde il processo di identificazione che porta il teatro, l’opera – e, in particolare, la Zauberoper – a diventare una maestosa protrusione del sé, che rapidamente prolifera in una metastasi senza controllo:
Ci sono solo io, io, il mio teatro e i miei debiti, e l’incanto è finito, e le cose sono quelle che sono: i draghi sono accozzaglie di cartapesta e le vesti regali sono costumi di quarta mano, che non reggeranno un’altra rammendatura.
Si rivolge al suo pubblico di «egregi pescivendoli», vedove, servette, borghesucci e sellai, per raccontare da dove nasce questo reboante ritorno; come un vecchio seduttore ormai anacronistico e fuori luogo, vittima costante delle sue velleità farsesche e di un’autocompiacenza che deborda volentieri nel grottesco, Schikaneder si esibisce in una confessione che si rivela essere il tentativo di apologia delle proprie debolezze, davanti a un tribunale di fantasmi che, quando chiamati a intervenire, svaniscono lasciando il teatro non vuoto, ma «svuotato».
Questa è forse la paura maggiore di Schikaneder: l’horror vacui, inteso come terrore di svelare il nulla dietro la superficie, che scongiura difendendosi a furia di strati su strati di colla e vernice scadente, a costo di restare intrappolato senza rimedio nella finzione che, a poco a poco, divora tutte le sue certezze mentre cerca di sfidare quelle altrui.
E progressivamente, come per un contrappasso che a tratti assume note dolorose e che lo obbliga a scendere nelle profondità di quel suo animo che aveva fatto della superficialità un’etica, oltre che un mezzo di sostentamento, Schikaneder svela le quinte all’unico sguardo da cui voleva schermarsi, ovvero il proprio.
Per Schikaneder la continuazione di Il flauto magico è l’elaborazione di un lutto: quello del «suo» genio, la perdita della sua «gallina dalle uova d’oro»; Mozart infatti era stato decisivo per la fortuna del Freihaus, un teatro popolare noto per la «puzza d’aglio» e per le soluzioni sceniche esagerate, spettacolari, macchinose, che distoglievano l’attenzione dalla scarsa qualità e dal gusto meno colto delle opere proposte. Con l’arrivo di Mozart e della sua Zauberflöte, il Freihaus aveva attirato l’attenzione di personaggi illustri, raccogliendo il loro favore e portando alla modesta compagnia del teatro l’illusione di un riscatto dalla mediocrità. D’altra parte, però, Mozart aveva una dote che per Schikaneder era complementare e compensatoria:
La musica di Wolfi faceva questo, compiva il miracolo, rendeva vere e limpide quelle che altrimenti sarebbero state balle colossali. […] Wolfgang, però, non era un imbroglione o un incantatore. Il punto della faccenda non era indurti a credere qualunque cosa: era renderla vera.
Schikaneder non è un conoscitore dell’animo umano: eccellente a intercettare i gusti più bassi e le mode del momento, abilissimo a distogliere lo sguardo altrui dalle sottotracce opportuniste e manipolatorie del suo fare, grazie alla sua amicizia con Mozart aveva apportato autenticità e verità a una dimensione in cui l’umano e l’emotivo erano programmaticamente schiacciati, asserviti al delirio di onnipotenza di un genio incompleto e quindi destinati a esaurirsi. Nel suo ininterrotto fagocitare egoico, Schikaneder non è mai riuscito a distinguere il Mozart amico dal Mozart compositore, e tutto quello che accade è frutto di un’incorporazione feroce, che lo porta a un’identificazione fuori controllo. Il desiderio di dare un seguito a Il flauto magico per Schikaneder è di fatto il desiderio di Mozart, che invece bramava solo la libertà di mettere la parola «fine». Il voler tornare a rivestire i panni dei protagonisti dell’opera viene interpretato come vitale per gli attori del Freihaus, ma è solo l’esito di un’accondiscendenza stanca, rassegnata, pronta a detonare al minimo ingresso d’aria.
Tutto porta al crollo dell’illusione, che si riflette sia metaforicamente, sia in senso pratico, su ogni cosa: ne escono stravolte le dinamiche interne al gruppo degli attori, su cui Schikaneder si rende conto di non aver mai avuto il controllo; le scenografie si sfaldano, prendono fuoco; emerge la verità dietro al matrimonio e al sodalizio professionale tra Schikaneder ed Eleonore, il suo rapporto con il pubblico, con il teatro, con le storie, e infine con la realtà:
Winter, che non capiva gli uomini e le loro ragioni, ci ha rappresentati per come ci vedeva: frammentati, divisi, impegnati a dire balle sapendo di dire balle, nascosti dietro la scimmiottatura di una musica sublime, che doveva portare verità e invece rendeva dozzinale la menzogna. Forse ci aveva davvero resi così… o magari, addirittura, lo eravamo sempre stati.
Il monologo di Schikaneder sembra allora trascinarsi verso la dichiarazione aperta di una sconfitta, verso un epilogo inaspettato e beffardo, verso l’ammissione che Il labirinto non verrà mai rappresentato perché non esiste e non è mai esistito; invece, come un deus ex machina del tutto coerente con lo stile del Freihaus, Eleonore Schikaneder, di fatto il vero direttore del teatro, offre al marito una nuova visione, tanto dolorosa quanto redentrice, che lo aiuta ad amputare quella parte di sé presa nella tagliola dell’impossibilità di distinguere fra il dentro e il fuori.
Quest’ultimo è un aspetto interessante anche per quanto riguarda l’autrice: l’ossessione per la Zauberflöte, infatti, è sua. Come è descritto nell’appendice al romanzo, Quel che c’è di vero, le due ossessioni si incrociano e sovrappongono; questo scambio, che ha concorso alla costruzione della trama, condivide lo stesso meccanismo di sovrapposizione e di identificazione che poi si riverbera per tutto il testo, e che anzi in molti punti sembra essere il motore di ogni cosa. È questa la ragione per cui il romanzo ha qualcosa di vibrante: l’ossessione non è immobile, volteggia, e sembra farlo proprio su quelle stesse arie care all’autrice e al suo protagonista; dà voce a un coro di istanze che si fanno personaggi, e impone una riflessione sulla narrazione, su un’arte che ha un potere complesso, maieutico, necessariamente legato alla realtà per quanto sia ontologicamente non reale in quanto finzione.
In questo, il soggetto scelto da Galli – in apparenza così distante da noi e in qualche modo anacronistico, quasi inattuale – oltrepassa i confini storici e geografici e ci si avvicina, recando una riflessione sul senso della continuità a tutti i costi, sulla replica, sulla perpetuazione di un manierismo retromane che il più delle volte rimane imprigionato nei suoi stessi meccanismi, perdendo quell’autenticità che invece vuole rivendicare (o riarrangiare).
Sempre utilizzando il linguaggio della sovrapposizione, del parallelismo, dell’incorporazione fino ad arrivare all’azzardo di una possessione, tutto questo si riflette sulla scrittura e sullo stile di Galli, che per sua dichiarazione non ha uno stile:
Lo stile per me è funzionale a esprimere un certo contenuto, a costruire il punto di vista di un personaggio. La voce di Schikaneder ha dettato il mio stile in questo caso […].
La scrittura è ricca, così come la voce narrante: il gioco sapiente di registri si camuffa tra smargiassate, volgarità e dissacrazioni; nonostante il monologo, la voce regge per tutto il romanzo senza cadute, e mantiene l’equilibrio negli stacchi emotivi. La narrazione si gioca sull’esplicito, niente è lasciato al non detto seppure riesca a non cadere mai nel didascalico. Divertente e camaleontica, Benedetta Galli offre le sue parole al circo di contraddizioni, di negazioni, di trasformazioni nel contrario che il suo protagonista mostra al suo pubblico, più vasto di quello della Vienna di fine Settecento. Schikaneder seduce per ridicolizzarsi, dichiara per negare, scopre il fianco alla caduta della maschera, allo svelamento della cerniera dietro il costume; non copre il crepitio della cartapesta e il cigolio dei macchinari oliati male, s’inebria dell’odore della colla (come di quello delle pagine) e si offre nella sua umanità.
di Naima Bolis