Simbologie della miseria: “Génie la matta” di Inès Cagnati
Questa vita, come tu la vivi adesso e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora infinite volte; e niente di nuovo vi sarà in essa, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà far ritorno a te […] L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo rigirata – e tu con essa, granello di polvere!
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza
Una madre e una figlia. L’amore straziante di Marie, figlia e voce narrante, che cade nell’indifferenza davanti agli occhi vacui e impermeabili di Eugénie – Génie la matta –, madre che la vede come il frutto di una violenza.
L’eterno ritorno dell’amore di figlia, che nonostante venga reciso, ricresce più robusto e ostinato, proprio come un fiore colto senza essere estirpato. E una disgrazia, che ritorna immutata dalla madre alla figlia, consegnata nel sangue al pari del corredo genetico nel romanzo di Inès Cagnati (1976) edito da Adelphi quest’anno nella traduzione di Ena Marchi. Marie, figlia tenuta eppure respinta, figlia che non è nata nell’amore, ma dalla sopraffazione e dall’orrore di una violenza carnale subita, che le ha tolto la gioia e le parole e l’ha resa per tutti Génie la matta.
In Génie la matta il tempo della storia è circolare, le azioni si ripetono, scandite dal susseguirsi delle stagioni sui campi, sulla terra che Génie lavora senza sosta. Quando la terra sarà brulla lei e Marie avranno fame, quando la terra sarà arida e secca, avranno sete. È come se Génie rivivesse sempre lo stesso giorno, scomparendo nel lavoro quando ancora fa buio, prendendo ordini mentre gli altri riposano, tutti i giorni, sempre uguale; dagli altri, eppure, è umiliata, per quella sua miseria che per loro ha le sembianze della pazzia.
Nel romanzo la miseria perseguita e condanna; è la società rurale in cui Génie una volta era inserita a perpetuarla sull’altro, su chi è diverso, perché sua è la colpa di questa diversità. Génie dopo lo stupro viene allontanata dalla sua famiglia, ritenuta colpevole della vergogna che si è abbattuta sulla loro impeccabile esistenza. Nulla viene detto del muratore che l’ha violentata, perché qualsiasi cosa sarebbe superflua: non è da biasimare chi il male lo commette, ma chi il male lo incarna.
Con una simile visione, si può realizzare concettualmente anche il terrore d’abbandono di cui soffre Marie, figlia bastarda con il sangue guasto dalla stessa colpa sociale tramandata dalla madre, e come lei ritenuta causa dei suoi mali. Marie non conosce il padre e sa che nessuno la vuole; pertanto, intuisce che il legame naturale d’amore tra una madre e sua figlia non è qualcosa di già dato, ma va ogni volta ricercato – e supplicato.
Lei diceva
«Non starmi tra i piedi».
Ma io volevo amarla, starle sempre accanto.
Tornando da scuola, prendevo scorciatoie, correvo nel fango, negli artigli dei rovi, nel richiamo rosa dei meli cotogni. Sguazzavo nei pantani. A volte la trovavo a casa che lavava o stirava. Mi slanciavo verso di lei. Per un po’ mi faceva stare accanto a lei e poi diceva:
«Non starmi tra i piedi».
Nella trama ci sono alcuni simboli che racchiudono la miseria senza dirla. Anzitutto, la storia che viene raccontata a Marie, l’orco che aspetta; una favola che cela la verità del male che è stato di Génie e diventerà anche il suo, la disgrazia che si ripresenta identica.
Inoltre, tra le varie mansioni in fattoria, a Génie spetta spesso il lavoro più distante dalla vita: soltanto a lei viene chiesto di ammazzare i conigli malati, spennare le oche, e quando la cagna o la gatta fanno i piccoli è lei a doverli mettere in un sacco con dei sassi e a gettarlo nel fiume. Sono stragi d’innocenza che macchiano fin da subito anche l’esistenza di Marie, che deve imparare a fare lo stesso. Solo la sua vaccherella, a cui è tanto affezionata, sembra scampare alla miseria; non vede e la sua cecità può essere intesa come salvifica, perché la estranea da quello che accade. L’ineluttabile però prenderà anche lei, e avrà la stessa sorte di Génie; come lei è il capro espiatorio, l’elemento innocente che viene immolato, il cui sangue viene sparso per purificare la società.
Génie, infatti, che matta non è, accetta di esserlo per gli altri; in un’intervista a Inès Cagnati posta in chiusura dell’edizione italiana, viene spiegato come l’altro, inteso come matto, venga accettato dalla società in quanto garante della “normalità” altrui. Génie sceglie la sua follia e questo le permette di lavorare, è la sua sussistenza. Non appena si sfilerà da questo status però, come riportato anche nell’intervista, stando con un uomo che sceglie, con un nuovo figlio, la società allertata dall’apparente cambio di paradigma si vendicherà, e lo farà proprio sul suo bambino.
La scrittura serba in sé il tono dell’ineluttabile. C’è nella prosa lo stesso andamento della trama con interi frammenti che ritornano, talvolta senza che venga modificata nemmeno una parola. «Mi ricordo…» e altri motivi narrativi si susseguono, facendo della memoria una sfilata di immagini sempre uguali per testimoniare tutte le esistenze appassite dalla miseria e tentare di darne un senso. Tra i tanti motivi, «Col cuore che faceva il matto» è l’inciso che sempre torna pronunciato da Marie, che in queste parole racchiude la paura dell’abbandono, la snaturata visione di sua madre che ravviva il passo per non farsi raggiungere.
Io dicevo:
«Non piangere».
Avevo voglia di andarle vicino, di dirle:
«Hai me».
Ma lei piangeva lontano. C’era, dappertutto, molto silenzio, i salici matti del fiume, i latrati delle volpi affamate sulla collina, e lei che piangeva lontano e a volte diceva:
«Non ho avuto niente, io. Niente»
Avrei voluto andarle vicino.
Ogni capitolo, inoltre, termina sferzante, con la narrazione che arriva all’apice dell’emozione nelle battute conclusive, spesso in una parola sola. Anche le scene più dolci sono impregnate di una strana malinconia, perché Marie le ha vissute e le ricorda come brevi parentesi lievi del tempo della memoria. Questi ricordi, allora, vengono riportati più volte nel testo, intatti, senza modifiche nella sintassi, come per custodirli. A leggerli risuonano come una sorta di ritornello lieve, una strofa musicale che scandisce la trama tra gli eventi più duri, e forse è ciò che li rende ancora più strazianti.
«Nonno.»
Lui alzava lentamente gli occhi dal libro, diceva:
«Sei tu, bambina mia.»
Mi dava delle noci, delle nocciole o una mela e diceva:
«Mangia, bambina mia».
Nel romanzo sono gli altri, la società, a costringere Eugénie nella miseria. Ma è chiaro che anch’essi sottostanno a un ente superiore, la sola artefice delle esistenze che dipendono dalla terra: la Natura. A rappresentarla interviene una prosa talvolta essenziale, altre altamente lirica, sempre sinestesica: con il suo «odore carnoso» inebria Marie, il «sole zuccherino» va a indorare le uve della vigna. Ma anche la natura severa, con il «profumo bagnato» del fango che inghiotte la piccola Marie mentre rincorre Génie lontana, e l’«odore putrido» di tutto ciò che muore quando la terra si spacca perché asciutta. Si apre un contrasto tra questa natura fredda – la solitudine reale di Marie – e luoghi esotici e lontani, forse soltanto immaginati, racchiusi dentro di lei. Sono evocati con giochi di colore nei frammenti in cui Marie racconta di Pierre, l’unico possibile amore; luoghi che, tuttavia, presto sfumeranno.
«Questa vita, come tu la vivi adesso e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora infinite volte», è il rimando a Nietzsche citato all’inizio, la teoria dell’eterno ritorno dell’uguale, perché si abbatterà la miseria, eterna e circolare, anche su questo amore da cui è stata scelta.
A Marie, in fondo, non è concesso riscattarsi, come d’altronde non era stato concesso a sua madre.