Lelio Camassa
pubblicato 3 anni fa in Letteratura

Storia (triste) della prima lectura Dantis

Boccaccio lettore di Dante

Storia (triste) della prima lectura Dantis

Nell’agosto 1373, un gruppo di fiorentini presenta al Comune una petizione, con la quale si richiede espressamente di svolgere una pubblica lectura della Commedia di Dante. Qualche giorno più tardi, il 25 agosto, le più alte autorità politiche di Firenze si rivolgono a un intellettuale prestigioso, che per il Comune aveva già svolto alcune missioni diplomatiche in giro per l’Italia. Quest’uomo è Giovanni Boccaccio, ormai sessantenne e in miseria, ma con una competenza e una passione unici quando si tratta di Dante, il suo poeta preferito.

L’autore del Decameron, sebbene ormai dedito alla letteratura latina filosofica ed erudita, accetta probabilmente con una certa dose di entusiasmo intellettuale, anche se non poca presa devono aver fatto i ben cento fiorini d’oro del compenso pattuito: una bella cifra, se si pensa che oggi, convertendo in denaro i circa tre grammi d’oro contenuti in un fiorino, essa corrisponderebbe a circa quindicimila euro.

La lectura della Commedia, ossia una lettura con commento, si sarebbe svolta in un’antica chiesetta, S. Stefano di Badia, vicino casa di Dante, a partire dal 23 ottobre 1373; Boccaccio avrebbe dovuto leggere tutti i giorni per un anno, tranne i festivi. È un evento eccezionale, non solo per la caratura dell’opera letta e del lettore, ma anche perché gli unici testi commentati pubblicamente, all’epoca, erano quelli latini, tra l’altro mai fuori delle mura dei monasteri o delle università.

Questo episodio lascia tracce nell’attività poetica di Boccaccio. Certo, per la sua lectura stende varie schede e appunti, noti oggi come Esposizioni sopra la Comedia, che si fermano solo al canto XVII dell’Inferno. Ma il poeta di Certaldo rievoca questa esperienza anche in alcuni sonetti del suo canzoniere.

Ci aspetteremmo versi pieni di commozione e rime dense di orgoglio, e invece troviamo espressioni di rimorso e toni di pentimento. Le tre poesie, tutte comico-grottesche, sono il triste resoconto della mortificante esperienza boccacciana della lectura Dantis.

Nel sonetto CXXII, l’anziano Boccaccio appare molto rammaricato ed afflitto. Il suo tormento? Aver prostituito le Muse «nella fornice [postribolo] del vulgo dolente» e averne indecentemente denudato le parti intime «alla feccia plebeia»: come a dire che, commentando e quindi rendendo accessibile al «vulgo» la Commedia, abbia permesso al pubblico miserabile di profanarla. La colpa, prosegue Boccaccio, è tanto grande che Apollo, il dio della poesia, lo ha punito facendolo «un otre divenire, / non pien di vento ma di piombo grave». La metafora avvilente simboleggia l’idropisia, che ha fra le sue manifestazioni il gonfiore del corpo (per questo, il Certaldese è generalmente raffigurato grassoccio). Boccaccio forse se ne ammala dal gennaio 1374.

Oggi, le parole del suo sonetto «Né spero mai di tal noia guarire» suonano tristemente profetiche, dato che davvero non guarirà più, morendo l’anno successivo dopo molti mesi tormentati. Aleggia, fra i versi del componimento, un senso di colpa e come una necessità di compassione, evinte dall’autorappresentazione di Boccaccio, troppo diretta e impietosa per dipendere da meri topoi letterari.

Il sonetto CXXIII chiama in causa direttamente il povero Dante. L’amato maestro, il dux et prima fax, per colpa di Giovanni «piange che li concetti del suo alto ingegno» siano stati resi fruibili («aperti») al «vulgo indegno» dalla sua «lettura».

Certo, il disprezzo del popolo da parte dell’intellettuale era un luogo comune, così come l’ingratitudine del volgo. Ma è toccante leggere, in questi versi, la vicenda umana di Boccaccio. Questi immagina l’intellettuale brillante e sdegnoso, Dante, che piange a causa sua, e tenta perciò di scrollarsi di dosso una parte della colpa: «d’altrui non mia, fu tal follia» di leggere la Commedia, dice Giovanni, il quale, poverino, è stato costretto da una «vana speranza» (forse che il pubblico capisse a fondo il Poema Sacro), da «vera povertade» (quella in cui Boccaccio versava), da «l’abbagliato senno» e dai «prieghi» degli amici, che lo hanno incitato ad accettare. Il Certaldese, poi, tenta la via della consolazione al ‘male’ che ha perpetrato. I nemici della poesia, gli «ingrati meccanici», «non goderan guar [non godranno a lungo]» del bene che è stato loro fatto con la lectura, forse perché Giovanni ha già deciso di smettere, o forse perché confida sulla breve memoria del popolo.

In un altro sonetto, il CXXV, diventa ancora più aggressiva la sua voglia di rivalsa verso il pubblico di Firenze. Metaforicamente, Boccaccio ammette di aver imbarcato l’«ingrato vulgo» su una nave, lasciata poi «senza alcun piloto» e in un «mar non noto», quello della Commedia. Ma, piuttosto che augurarsi magari che l’equipaggio (dei fiorentini) sappia ritornare in porto, spera che la nave si capovolga («el di sù spero veder di sotto») e che gli improvvidi marinai anneghino. E in più, con una topica immagine presa in prestito dal poeta latino Lucrezio, Giovanni si rappresenta su un monte («di parte eccelsa») dal quale osserva il disastro nautico, ridendosela di quello che accade e sentendosi così in parte risarcito «del ricevuto scorno e dell’inganno».

Ora, è buona norma usare cautela nel maneggiare i componimenti poetici, ricchi di trasfigurazioni della realtà, quali testimoni affidabili della biografia di un poeta, specie se questi è notoriamente propenso a romanzare il proprio dato biografico, come Boccaccio; tanto più lo è per questi sonetti, impossibili da datare con precisione. Non sappiamo cosa veramente sia accaduto. Da un lato, l’allusione a un «inganno» ricevuto da chi ha convinto Boccaccio a leggere la Commedia, forse il Comune di Firenze, fa ipotizzare che non gli sia stato riconosciuto qualcosa di promesso; ‘qualcosa’ che non è il considerevole compenso, versato come da accordi. Dall’altro, è possibile che Boccaccio avesse ricevuto troppe rimostranze dai ‘classicisti’. Parte degli studiosi, infatti, tende a leggere come una facies di questa vicenda una tenzone poetica, in realtà più simile a un duello rusticano in versi, fra il Certaldese e un innominato ‘morditore’ (forse un sacerdote che deve aver criticato aspramente la lectura dantesca).

Il j’accuse sarebbe stato mosso a Boccaccio dagli intellettuali o dalle famiglie nominate da Dante nell’Inferno e il nostro poeta, vecchietto e malaticcio, si sarebbe difeso nei sonetti CXX, CXXI e CXXIV con l’unica arma a sua disposizione: la penna. La vicenda, comunque, è ancora tutta da indagare.

Quale che ne sia il motivo, in età avanzata il dantista convinto, l’entusiasta promotore dell’opera del Sommo Poeta, colui che ha scritto la biografia di Dante perché tutti i fiorentini potessero conoscere e leggere e conservare la memoria di questo autore, il copista infaticabile che ha trascritto di suo pugno almeno tre volte la Commedia in alcune splendide sillogi, ebbene proprio lui si pente di averla «prostrata». Il Poema dantesco è diventato troppo prezioso per essere lasciato in mano ai «meccanici». Verrebbe da chiedersi quanto questa nuova prospettiva sia frutto dell’influsso del ben più sprezzante amico Petrarca, il quale tutto voleva tranne che una letteratura rivolta agli illetterati.

Cosa ci lascia, dunque, l’esperienza della prima lectura Dantis della storia? Certo, questi gustosi sonetti e le Esposizioni, tuttora un prezioso grimaldello ermeneutico del capolavoro dantesco,non sono poco, e forse già così andrebbe bene. In più, però, Boccaccio ha fatto a tutti, anche a noi, un secondo dono altrettanto importante: in tutta la sua vita intellettuale, lectura inclusa, è stato il primo ad accorgersi che Dante fosse un ‘classico’, perché poteva continuare a parlare dovunque e a chiunque, anche post mortem.

Boccaccio ha avvertito da subito il valore dell’opera di Dante e ha percepito la facoltà del ‘suo’ poeta di entrare nelle vite altrui, al netto della «indegnità» di alcuni, in maniera devastante e bellissima. Una facoltà, quella di ‘innoiarsi’ (avrebbe detto Dante), che ancora dopo settecento anni esperiamo sulla nostra pelle e per la quale siamo tutti un po’ debitori a quel devoto dantista di Certaldo.

di Lelio Camassa


L’edizione delle Rime di Boccaccio utilizzata in questo articolo è G. Boccaccio, Rime, a cura di V. Branca, Mondadori 1992 (I edizione Oscar classici 1999).