Lelio Camassa
pubblicato 2 anni fa in Letteratura

Su “La Terra Santa” di Alda Merini. Una spigolatura poetica

Su “La Terra Santa” di Alda Merini. Una spigolatura poetica

Aver condiviso un’epoca con una gigante della letteratura come la milanese Alda Merini, per un appassionato, è di certo un vantaggio bifronte. Se infatti si hanno a disposizione una quantità di notizie e testimonianze (impensabile per molti autori anche solo del primo Novecento), questo flusso spesso diventa dispersivo e, a volte, si tramuta in una sorta di feticismo aneddotico, che ha ben poco a che fare con la poesia. Nel caso di Merini, già nel 1998 Maria Corti, grande critica letteraria e sua amica, denunciava in apertura all’einaudiano Fiore di poesia proprio il rischio di un approccio di questo tipo, che comporta una misinterpretazione della figura storica e del percorso poetico dell’autrice: la sua esperienza di vita rischierebbe di sembrare un serbatoio di fatterelli bizzarri in cui andare a frugare con malsana curiosità, piuttosto che configurarsi come «la vicenda terrena in funzione delle successive creazioni poetiche».

Il secondo pericolo, per l’appunto, è l’obnubilamento (o il traviamento) del lascito spirituale e lirico, che per Merini può scivolare, e talvolta è scivolato, nell’oltranzismo femminista: eventualità perlomeno sospetta, se si considera che la Poeta ha cantato ‘il maschio’ con una levità e un trasporto straordinari; ma pure questi sono i tranelli in cui, per Corti, possono incappare i «patetici fans che la inseguono per una poesiola inedita da carpirle» e che pretendono di indagarne «con acutezza critica i percorsi stilistici». Le severe ma realistiche parole della critica chiosano perfettamente la questione: «ci sono troppe api a suggere il nettare».

Non si vuol sottrarre nulla all’icona che Merini ha saputo diventare anche in ambiti ‘altri’ rispetto alle Lettere; a tal proposito, si ricorda il memorabile ritratto del suo fotografo personale, Giuliano Grittini, che la immortala, nuda e avanti con l’età, distesa vezzosamente sul fianco mentre fissa in camera, nell’atto di fumare orgogliosamente l’immancabile sigaretta e con la fedele collana di perle (di bigiotteria, ovviamente) che le accarezza i seni. Ma, volgendosi alla letteratura, bisogna partire da La Terra Santa (1984), il capolavoro che traspone l’esperienza biografica del manicomio sul piano effimero e sfumato dell’arte.

Dopo la raccolta di liriche Tu sei Pietro (1961), Alda Merini vive un periodo di silenzio poetico che dura circa un ventennio; nel mezzo, si staglia l’esperienza, reiterata negli anni, della reclusione nel manicomio ‘Paolo Pini’ di Milano, iniziata col primo internamento nel 1965. Nella prosa de L’altra verità. Diario di una diversa (nell’edizione del 1997), lei stessa dice che l’internamento sia dipeso da un coacervo di cause, come la morte della madre, l’indifferenza del marito panettiere, la «stanchezza» e l’intorpidimento della mente della donna dopo la scelta matrimoniale: «le cose andarono di male in peggio tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio».

Così, la Poeta entra «in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire» e che coincide con la fase di stasi della sua attività poetica. Quest’ultima riprende solo nel 1979 e, come scrive Corti, da essa scaturiscono le «liriche più intense» e le «meditazioni sulla sconvolgente esperienza manicomiale», confluite poi in La Terra Santa

Il nostro breve percorso all’interno della raccolta inizia proprio dall’arrivo in manicomio:

Quando sono entrata

            tre occhi mi hanno raccolto

            dentro le loro sfere,

            tre occhi duri impazziti

            di malate dementi:

allora io ho perso i sensi

ho capito che quel lago

azzurro era uno stagno

melmoso di triti rifiuti

in cui sarei affogata.

I tre occhi «duri impazziti» delle pazienti «dementi», che assistono all’adito di Merini, traspongono sul piano fisico la deformità spirituale percepita all’atto dell’ingresso, alla quale da subito la Poeta sente di essere assoggettata: l’accezione accomodante del verbo raccogliere, con l’idea di sollievo o sollevamento in genere associatale, si perde inesorabilmente per via della caratterizzazione inquietante degli occhi delle malate, che genera lo svenimento dell’io lirico. Un senso di destabilizzazione, provocato dall’ingresso, è veicolato dallo slittamento in avanti, sulla pagina, dei versi che tratteggiano le pazze e, nella seconda parte, dalla totale assenza dello strumento per eccellenza di contenimento sintattico: la punteggiatura, comunque esigua nei versi precedenti, che però sarebbe stata necessaria almeno fra i due predicati coordinati «ho perso»/«ho capito» (ma anche nel penultimo verso).

La sensazione predominante, sul finale, diventa una pungente asfissia, indotta dall’evocazione dello «stagno melmoso di triti rifiuti» che sta per inghiottire l’io: tutti i sensi fanno avvertire sulla pelle e sulle mucose un senso di disgusto e un’ansia da intrappolamento. Una soffocante morte nel fetore e nel viscidume.

Il manicomio ha i suoi rituali: fra questi, la Toeletta dell’omonima lirica, che enfatizza la miserrima condizione fisica dei pazienti (il «tremolar d’oscene carni»), e la sedazione:

Il dottore agguerrito nella notte

viene con passi felpati alla tua sorte,

e sogghignando guarda i volti tristi

degli ammalati, quindi ti ammannisce

una pesante dose sedativa

per colmare il tuo sonno e dentro il braccio

attacca una flebo che sommuova

il tuo sangue irruente di poeta.

                        Poi se ne va sicuro, devastato

                        dalla sua incredibile follia

                        il dottore di guardia, e tu le sbarre

                        guardi nel sonno come allucinato

                        e ti canti le nenie del martirio.

La figura del medico ha una patina bellica, da esploratore in avanscoperta che procede con sorniona circospezione ad arma (o siringa) spianata, inesorabile. Il ghigno sul suo volto è un atto di superiorità, antitetico rispetto ai «tristi» volti dei pazienti, in un gioco di prospettive che frizionano e culminano nello sgarbo finale ai loro danni, la «pesante dose sedativa» propinata. Proprio in questo istante, quando cioè ci si attenderebbe un totale intorpidimento della coscienza del sedato, l’io pare destarsi e separarsi dalla massa informe dei malati, come sembra attestare il passaggio al ‘tu’ che sarà portato avanti sino alla fine della lirica. La «dose» dunque inaspettatamente scuote, «sommuove» il «sangue irruente di poeta» piuttosto che placarlo, e lo slittamento dei versi in avanti, sul piano grafico, forse rappresenta visivamente una diversa o nuova consapevolezza.

Il capovolgimento dell’orizzonte di attesa prosegue e, anzi, si direbbe che domini nell’ultima parte, al netto dell’ambiguità della terminologia (poeticamente fisiologica). La sicumera del dottore diventa come una facciata, stride con la sua devastazione interiore e con l’«incredibile follia», quasi si deforma. Dal canto suo, il malato, in un dormiveglia semi-allucinato, fissa il confine della sua prigione («le sbarre») e si culla con una mesta ninna-nanna; il vigore del suo sangue pare mutato in una dolce rassegnazione. Si direbbe l’effetto tranquillante della medicina; eppure, lo scenario evocato, anche lessicalmente, è quello del confronto fra il carnefice e il martire cristiano: il primo, mattamente ebbro di sangue e, dalla prospettiva cristiana, erroneamente «sicuro» di essere nel giusto, quando invece è preda di un delirio («follia»); il secondo, conscio del suo destino infausto con una letizia ultraumana, nell’attesa di vincere il male di lì a poco.

Che sia quella religiosa l’inquadratura da cui guardare alle liriche di Merini è chiaro sin dal titolo La Terra Santa. Quando questi elementi si sposano con tematiche apparentemente incompatibili, come il sesso, scatta la magia:

Gli inguini sono la forza dell’anima,

tacita, oscura,

un germoglio di foglie

da cui esce il seme del vivere.

Gli inguini sono tormento,

sono poesia e paranoia,

delirio di uomini.

Perdersi nella giungla dei sensi,

asfaltare l’anima di veleno,

ma dagli inguini può germogliare Dio

e sant’Agostino e Abelardo,

allora il miscuglio delle voci

scenderà fino alle nostre carni

a strapparci il gemito oscuro

delle nascite ultraterrestri.

La metonimia degli inguini ingentilisce il concetto di fondo del componimento: l’inscindibilità della sessualità dall’anima umana, di cui anzi costituisce una «forza» latente e dalla quale scaturisce tutta l’inspiegabile meraviglia del «vivere». Il carattere intuitivo, benché profondo, dell’asserzione iniziale viene soppiantato dalla ben più complessa e quadruplice qualifica degli inguini, definiti «tormento», «poesia», «paranoia», «delirio», in una climax che, fra l’altro, colloca significativamente la poesia fra gli scompensi psichici, a enfatizzarne un carattere disturbato e disturbante. Quando però il componimento sembra volgere definitivamente al biasimo della travolgente potenza della sessualità, mediante le idee dello smarrimento/perdizione e della prostrazione dell’anima «asfaltata», la Poeta sconvolge il quadro delle attese.

La congiunzione «ma» a inizio verso colora il tema portante di una nuova sfumatura, sorta dalla considerazione che anche sant’Agostino e il filosofo medievale Pietro Abelardo abbiano a lungo ceduto alle gioie della carne: il primo, peccatore impenitente durante tutto l’arco della sua travagliata gioventù, e il secondo, addirittura evirato a causa del suo amore per Eloisa, sono infatti entrambi autori di alcune delle pagine più belle e significative della teologia cristiana (che, con ogni probabilità, è simboleggiata da quel «Dio» germogliato dagli inguini).

L’inafferrabilità degli ultimi versi meriniani sconsiglia di lanciarsi in conclusioni apodittiche e va rispettata, anche perché il duplice utilizzo dell’aggettivo ‘oscuro’ pretende che il non detto resti tale. Tuttavia, la perorazione della causa degli inguini forse trova qui un secondo argomento a suo sostegno; nel complesso di voci ‘alte’ che, muovendo dalla passione sensuale, sono state in grado di parlare agli uomini («scendere fino alle nostre carni») e, poi, nella forza prepotente che «strappa» i gemiti di piacere (ossia, forse, costringe al coito), si può vedere una legittimazione della sessualità: essa sorge, in parte, dalla topica incapacità umana di sottrarvisi e, in parte, dalla coscienza della paradossale provenienza dell’edenico (le «nascite ultraterrestri») da un atto di perdizione (il «gemito»), come quello degli inguini.

Già da queste poche liriche, si evince che l’autorappresentazione di Merini sia ossimorica, dal momento che ricorda i topoi del ‘sedato sveglio’, del ‘malato sano’, del ‘santo lussurioso’. L’ambiguità della prospettiva è però annichilita, ad esempio, dal riferimento al martirio (la forma di testimonianza di un credo più solida possibile), dal richiamo all’autorità di Agostino e Abelardo e, si potrebbe aggiungere, dal permanere di una lucida coscienza dell’oscurità di ciò che riguarda l’anima.

L’originalità di Merini, per Maria Corti, sta proprio in un «processo mentale» che, dalla «realtà tragica» che la circonda e che pare vincerla, diventa «visione poetica dove ormai è lei a vincere, a dominare, non più la realtà».


Bibliografia

A. Merini, Fiore di poesia, a cura di Maria Corti, Einaudi 1998 e 2014.

A. Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, prefazione di Giorgio Manganelli, Rizzoli 2016.

A. Merini, La pazza della porta accanto, a cura di Chicca Gagliardo e Guido Spaini, Giunti 2017.