Sylvia Beach e James Joyce II
capricci, lotte e pirateria attorno al libro più controverso del ventesimo secolo: “Ulisse”
Se nel vecchio continente tutto procede per il meglio per gli scritti di Joyce, negli Stati Uniti le cose stanno diversamente. Nel 1918, a Boston appare un’edizione non autorizzata di Chamber Music di Joyce, seguito poi dall’Ulysses, nel 1926. Samuel Roth, uno dei più abili pirati editoriali degli anni ’20 – erano molto conosciute le sue edizioni pirata di George Bernard Shaw, Aldous Huxley, André Gide, per cui aveva già scontato diverse pene in prigione –, capisce che i prezzi alti delle edizioni Shakespeare and Company possono volgersi a suo vantaggio, nel caso in cui riesca a pubblicare un’edizione americana economica.
L’Ulysses, fatta eccezione per gli estratti pubblicati sulla «Little Review», non era protetto da copyright negli Stati Uniti perché, per quanto riguarda libri in lingua inglese, la legge copriva il copyright stampati su lastre tipografiche prodotte in America. Dato che non esisteva un’edizione americana, Ulisse era un testo di dominio pubblico. Samuel Roth era quindi libero di ristampare, censurare, alterare e mutilare il libro a suo piacimento.
Dal luglio 1926, quindi, Samuel Roth inizia a pubblicare i primi tre libri (Telemachia) – in un’edizione modificata, studiata appositamente per non attirare l’attenzione della censura – sulla sua rivista «Two Worlds Monthly». Ad agosto, quando Sylvia viene informata del furto, i capitoli successivi sono già in stampa. Per evitare processi, nella sua edizione, Roth omette tutti i riferimenti alla minzione, alla masturbazione e alla gonorrea, cambiando frasi come «the grey sunken cunt of the world» in «the grey sunken crater» o anche «He can kiss my royal Irish arse» in «my royal irish aunt».
Tramite certe informazioni che Hemingway le confida, Sylvia scopre che gli abbonati al «Two World Monthly» sono oltre ottomila e con il continuare della pubblicazione gli abbonati arrivano a essere oltre cinquantamila. Sylvia non poteva denunciare Roth per violazione di copyright, né poteva minacciarlo in alcun modo. Doveva trovare, quindi, una soluzione creativa, originale. Dopo il primo consiglio di Pound di organizzare un gruppo di buoni tiratori per spaventare a morte Roth, Joyce e Sylvia decidono di seguire il suo secondo consiglio e pubblicare una protesta, un manifesto avvalorato dalle firme di quanti più scrittori e artisti potessero unirsi alla loro causa.
Sta a Ludwig Lewisohn scrivere la bozza del manifesto che mette ben in luce come il problema non sia la mancanza di copyright negli Stati Uniti, che già vantano episodi di riluttanza a riconoscere certe opere d’arte, bensì «The question in issue is whether the public (including the editors and publishers to whom his advertisements are offered) will encourage Mr Samuel Roth to take advantage of the resultant legal difficulty of the author to deprive him of his property and to mutilate the creation of his art».
La petizione era poi avvalorata dalle firme di tutti gli scrittori e amici della Shakespeare and company e gli illustri dell’epoca, tra i quali: Albert Einstein, T.S. Eliot, Gaston Gallimard, André Gide, Knut Hamsun, Ernest Hemingway, Valery Larbaud, D.H. Lawrence, Thomas Mann, W. Somerset Maugham, Luigi Pirandello, Italo Svevo, Miguel de Unamuno, Paul Valéry, Virgina Woolf e W.B. Yeats.
Quando il manifesto esce sui giornali – Sylvia si assicura che i primi inizino a circolare proprio il 2 febbraio, giorno del compleanno di Joyce – la Shakespeare and Company viene inondata di lettere di supporto. Gli abbonati al «Two Worlds Monthly» si indignano e Roth prova a rispondere all’accusa sulla sua testata giornalistica, ma è già troppo tardi: gli ispettori del Post Office americano fanno in modo che le compagnie di spedizione non trasportino le sue pubblicazioni. Le vendite di «Two Worlds Monthly» precipitano, e i librai le rimuovono dagli scaffali.
Una volta uscito di prigione, nel 1929, Samuel Roth pensa bene di vendicarsi di «Sylvia Bitch», come inizia a chiamarla, e decide di piratare di nuovo Ulysses, questa volta in forma di libro. La sua edizione costa circa 10 dollari – più di un libro normale, ma di certo un affare per un libro come Ulysses –, ha la famosa copertina blu con lettere bianche e riporta la firma «Dijon.—Darantière» nell’ultima pagina, in basso. Un osservatore attento, però, può notare che la sfumatura del blu è leggermente più scura dell’originale; la font può sembrare la stessa ma il corsivo è diverso dall’edizione di Shakespeare and Company; la carta è più liscia e leggermente più pesante, i margini più ampi. Quest’edizione, numerata come nona, è spessa quasi quanto l’edizione parigina, ma è di poco più stretta e lunga, la copertina senza risvolti impedisce al rilegatore di inserire il cartone per rendere la copertina rigida e per questo motivo, una volta terminata la lettura, la rilegatura sembra letteralmente cadere a pezzi. La pagina dedicata alle altre opere di Joyce non c’è e quella che elenca i suoi altri editori presenta già il primo refuso: «Jonthan Cape». In ultimo, la costa, al contrario dell’edizione Shakespeare and Company, non riporta nome dell’autore e titolo dell’opera.
Dopo l’ultima esperienza in prigione, Samuel Roth si è fatto furbo: il nome della sua casa editrice cambia spesso, così come i suoi tipografi, ed è pronto a spostare tutto il suo lavoro, materiale e famiglia ogni qual volta sentisse il fiato della legge sul collo. Quando la polizia tenta di acciuffarlo di nuovo, infatti, riesce ad arrivare a lui solo tramite suo fratello Max; e così Samuel viene nuovamente incarcerato, meno di un anno dopo essere uscito di prigione.
In tutta questa vicenda, Sylvia a Parigi scrive una lettera a sua sorella Holly: «Questa faccenda dell’edizione pirata mi dà molto da fare. Non so proprio come facciano gli editori che pubblicano più di un libro. Un’opera sembra esigere già il massimo del lavoro di cui è capace un singolo editore» (Fitch, 293). La stanchezza inizia a farsi sentire.
La fine degli anni Venti è un periodo buio per Sylvia e per la Shakespeare and Company con la crisi che avanza e la Grande Depressione dietro l’angolo, la morte della madre, la minaccia di una nuova guerra e la maggioranza degli espatriati che lasciano Parigi. Il clima sta cambiando e le finanze ne risentono. Con Joyce, poi, inizia a crearsi una certa tensione. Come scrive nel suo memoir: «Fin dal primo giorno avevo capito che, nel lavorare con o per James Joyce, il piacere era mio – ed era un piacere infinito – e i profitti suoi. Tutto quel che i suoi libri rendevano, e ch’io facevo sempre in modo di non toccare, era suo» (Beach, 2018: 244).
Le qualità che rendevano Joyce un eccellente scrittore, lo rendevano al tempo stesso un essere umano spesso spietato e Sylvia è forse la persona che ne ha sofferto di più. Oltre a occuparsi della pubblicazione e del post pubblicazione, Sylvia diventa una sorta di segretaria personale dello scrittore. Ci sono tutte quelle lettere da scrivere, di cui occuparsi, da smistare, da consegnare, spedire e leggere, conti da pagare di sua tasca, libri da recuperare, medicine da comprare, anticipi da dare su edizioni di Ulysses non ancora previste, e quando inizia l’affare Samuel Roth, per Joyce non è sufficiente la protesta globale che Sylvia stessa organizza – caso senza precedenti nella storia della letteratura. No, Joyce vuole infatti che Sylvia vada negli Stati Uniti a trovare una soluzione diretta e immediata al problema.
Sylvia accetta in silenzio tutte le richieste del suo autore, e, nel bel mezzo dell’affare Roth, con i conti della libreria in rosso e il suicidio della madre appena avvenuto, le arriva un inaspettato conto di un ristorante di 200 dollari a nome di James Joyce. È la goccia che fa traboccare il vaso: Sylvia scrive una lettera disperata a Joyce, che poi non invierà mai:
I already have many expenses for you that you do not dream of and everything I have I give you freely. […] The truth is that as my affection and admiration for you are unlimited, so is the work you pile on my shoulders. When you are absent, every word I receive from you is an order. […] (I am poor and tired too) and I have noticed that every time a new terrible effort is required from me, and I manage to accomplish the task that is set me you try to see how much more I can do while I am about it. Is it human? (Beach, 319-20)
A questo punto Joyce prova a risolvere il caso del copyright in America chiedendo al suo agente inglese, James Pinker, di cercargli un editore americano. Alla Shakespeare and Company arrivano diverse offerte: la maggior parte sono di case editrici specializzate in libri erotici, altre non convincevano né Joyce né Sylvia. Huebsch, l’editore in America di A Portrait of the Artist as a Young Man, si propone per un’edizione censurata e Joyce, chiaramente, rifiuta.
Sylvia e Joyce non avevano mai dato grande importanza ai contratti, tant’è che, dopo otto anni dalla pubblicazione e nove edizioni stampate, non ne avevano stilato neppure uno. Ma ecco che, all’improvviso, Joyce sente l’urgenza di averne. «Il testo fu redatto secondo i desideri dell’autore, che li lesse, li approvò e li firmò. […] Certo, non lo facemmo vidimare da un notaio, ma nessuno pareva pensare che fosse necessario», scrive Sylvia (Beach, 246). Quanto ai diritti, scrive:
Non mi era neanche venuto in mente che qualcosa poteva toccare anche a me, quando si fosse trovato un modo conveniente di far uscire il libro nel mio Paese… finché non mi accorsi che proprio nessuno ci pensava. Allora cominciai a irritarmi di vedermi così ignorata.
Infatti, all’offerta successiva arrivata alla Shakespeare and Company, Sylvia risponde che si aspettava un compenso per la cessione dei diritti del libro. L’editore ribatte a sua volta chiedendo quanto volesse. Venticinquemila dollari, chiede Sylvia. Vista l’enormità della cifra, l’editore smette anche di rispondere alle lettere e, iniziata a spargersi la voce, nessuno prende più sul serio «la rappresentante di Joyce a Parigi».
Da questo momento le offerte cessano di arrivare e Joyce frequenta sempre meno libreria e libraia.
Vedevo quasi ogni giorno un suo vecchio amico [ndr Padraic Colum], che veniva da piazza Robiac a comunicarmi le sue opinioni sull’argomento del nuovo editore da trovare all’Ulysses. Mi esortava a rinunciare a quelli che «mi immaginavo» fossero i miei diritti. «E allora, il nostro contratto?» gli chiesi un giorno. «È immaginario, forse?» «Non c’è nessun contratto» rispose l’amico. E quando lo contraddissi pronunciò una frase che mi mise immediatamente al tappeto: «Lei mette i bastoni tra le ruote a Joyce». Così disse. Non appena se ne fu andato telefonai a Joyce che era libero di disporre di Ulysses come credeva, e che non avrei mai più rivendicato i suoi diritti (Beach, 248).
Probabilmente a quel punto Joyce aveva già avviato delle trattative con Bennett Cerf della Random House; il 2 aprile, è Paul Léon a informare Sylvia che il suo autore ha firmato il contratto, senza una parola alla sua editrice né un gesto di riconoscimento. Sylvia scrive a sua sorella Holly:
So as you might say, he has not only robbed me but «taken away my character» (Murat, 174).
Joyce firma, tutti sono contenti e si congratulano, ma in America l’Ulysses è ancora un libro impubblicabile. A questo punto, l’unica cosa rimasta da fare per Cerf è avviare un processo a difesa dell’Ulysses. Il verdetto è stabilito per il 6 dicembre 1933. La dimostrazione del giudice John M. Woolsey, passata ai posteri, se da una parte dimostra che i tempi sono cambiati, dall’altra rivela soprattutto la sua acutezza. «L’onestà» e «la franchezza», ma anche «il talento» di Joyce a evocare «lo specchio della coscienza e le sue impressioni caleidoscopiche» sono i motivi ricorrenti. Il giudice non ha visto «da nessuna parte il sogghigno salace della sensualità»; per quanto riguarda le parole condannate come volgari, aggiunge poi, «sono vecchie parole sassoni conosciute a quasi tutti gli uomini e, oserei dire, anche a molte donne». Conclusioni: «a dispetto dell’effetto incontestabilmente emetico che Ulisse presenta in certi passaggi, il libro non ha nulla che non possa essere ammesso negli Stati Uniti» (Murat, 174).
Il 25 gennaio 1934 Ulysses esce finalmente negli Stati Uniti; ad aprile il numero di copie vendute ammonta a trentatremila e Cerf si reca personalmente a Parigi per dare a Joyce 7 500 dollari. Tutto sembra procedere per il meglio, ma i lettori più acuti notano subito una beffa: il libro che Random House dà alle stampe non è l’ultima edizione di Shakespeare and Company, ma quella di Samuel Roth. La prima edizione legale di Ulisse negli Stati Uniti è il testo corrotto di un pirata letterario.
Quanto a Sylvia, ricevuta la sua copia edita Random House, esce dalla vita di Ulisse nello stesso modo in cui vi era entrata: rapidamente, informalmente e su civettuola richiesta di James Joyce.
Con più viaggi in taxi, le carte di Joyce vengono trasferite a casa di Paul Léon, che da quel momento in poi cura gli interessi dello scrittore. Nel suo memoir Sylvia scrive:
Nessuno dei nostri contratti mi fu mai della minima utilità. […] sia Ulysses sia Pomes Penyeach furono ceduti senza tenere alcun conto del primo editore. Però nel caso di Ulysses io stessa avevo dato licenza a Joyce di farne quel che voleva, e dopo tutto i libri erano i suoi: i figli appartengono alla madre, non alla levatrice, direi (Beach, 249).
In una prefazione all’edizione Random House, Joyce rende un piccolo omaggio a Sylvia scrivendo: «This brave woman risked what professional publishers did not wish to, she took the manuscript and handed it to the printers» (Murat, 175). Nel memoir Sylvia sottolinea che «took» e «handed» sono un bell’eufemismo per riassumere il suo contributo, ma forse Joyce non era cieco solo agli occhi.
Una sera, a cena da Fouquet’s, a qualcuno che sta criticando il lavoro della sua passata editrice, Joyce risponde: «All she ever did was to make me a present of the ten best years of her life» (Jolas, 86).
Opere citate:
- BEACH Sylvia, Shakespeare and Company, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2018.
- BIRMINGHAM Kevin, The most dangerous book: the battle for James Joyce Ulysses, New York, Penguin Random House Company, 2014.
- FITCH Noel Riley, La libraia di Joyce: Sylvia Beach e la generazione perduta, Milano, il Saggiatore, 2004.
- JOLAS Maria, The Joyce I Knew and the Women around Him, The Crane Bag, n° 4, 1980.
- MURAT Laure, Passage de l’Odéon : Sylvia Beach, Adrienne Monnier et la vie littéraire à Paris dans l’entre-deux-guerres, Paris, Fayard, 2003.
di Elisabetta Tommarelli
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