“The French Dispatch” di Wes Anderson
Cosa ci aspettavamo questa volta da Wes Anderson? L’estetica formidabile? La scenografia gremita e maniacale? I racconti eccentrici? I colori pastello, le animazioni e gli oggetti vintage? Il cast iconico? Ecco, tutte le richieste sono state esaudite, ma con The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun (2021) il regista texano è andato piacevolmente oltre le aspettative.
Quando decidi di andare al cinema a vedere un film di Wes Anderson, sei in coda per comprare il biglietto e inizi a pensare a cosa ti aspetta in sala, sai già che sarà un’esperienza irripetibile, o almeno, sai per certo che vivrai una vera esperienza da sala cinematografica – che personalmente trasmette un’aura magica, avvolgente. Nello specifico, con Anderson, questo accade perché hai già visto i suoi film precedenti, perché te ne hanno parlato in modo dettagliato o anche solo perché hai visualizzato su qualche piattaforma social i frame di alcune sue opere. Che sia originale o no, che piaccia o non piaccia, è sempre lui, Wes Anderson.
Cosa differenzia questo regista da tutti gli altri è qualcosa che si può intuire e delineare. Elementi riconoscibili che di solito ritornano in tutte le sue pellicole: inquadrature, illustrazioni, colori, personaggi, intrecci e colonne sonore. Ma cosa rende il risultato così armonioso, coerente e credibile non è così scontato. Il segreto sembra proprio essere il giusto equilibrio degli elementi stilistici che restituiscono un’atmosfera surreale e ipnotica, in ogni sequenza.
In The French Dispatch questo equilibrio è dettato dagli episodi che lo compongono e dal modo con cui vengono descritte le vicende.
Il direttore editoriale Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray) ha ereditato dal padre la rivista «Picnic», supplemento periodico del rotocalco «The Evening Sun» di Liberty in Kansas. Di questa eredità ha deciso di cambiarne il nome in «The French Dispatch» e spostarne la sede in Francia, nella cittadina immaginaria di Ennui-sur-Blasé. Dopo la morte improvvisa di Arthur, e con la sua ultima richiesta di chiudere la rivista, i componenti della redazione decidono di riunirsi e scrivere una pubblicazione conclusiva, un memoriale, che racchiuda tutti i migliori articoli usciti durante il corso degli anni. E proprio questi articoli si tramutano nelle vicende della narrazione filmica, ovvero gli episodi della pellicola.
Herbsaint Sazerac (Owen Wilson) è un “francesissimo” (riferito all’abbigliamento) cronista in bicicletta che racconta la cittadina di Ennui-sur-Blasé con tutti i suoi pregi e difetti – un modo per entrare nel contesto e nella scenografia creata dal regista e nella struttura stereotipata: dalla colonna sonora ai café, dalle vie strette e affollate alla moda parigina.
Nel secondo episodio, e quindi articolo, Il capolavoro concreto firmato da J. K. L. Berense (Tilda Swinton) racconta la storia di un artista incompreso e mentalmente disturbato, Moses Rosenthaler (Benicio del Toro), del mercante d’arte Julien Cadazio (Adrien Brody) e della guardia carceraria Simone (Léa Seydoux). Un trittico di personaggi estroversi che fanno scaturire una riflessione sul rapporto umano e sull’arte.
In Revisioni a un Manifesto invece, la cronista Lucinda Krementz (Frances McDormand) racconta e segue le gesta del giovane rivoluzionario Zeffirelli (Timothée Chalamet), durante un ipotetico ’68 parigino fatto di scacchiere, sigarette e accese manifestazioni.
Nell’ultimo articolo La sala da pranzo privata del Commissario di Polizia il giornalista e critico enogastronomico Roebuck Wright (Jeffrey Wrigth), che in un primo momento doveva descrivere i piatti del celebre chef, e Tenente, Nescaffier (Steve Park), si ritrova a raccontare una storia poliziesca fatta di rapimenti e inseguimenti.
Come se non bastasse, oltre agli attori e alle attrici celebri già elencati, si aggiungono alcuni personaggi interpretati da William Dafoe, Saoirse Ronan, Elisabeth Moss, Edward Norton, Christoph Waltz e l’immancabile Jason Schwartzman.
L’universo andersoniano in questa pellicola trova una dimensione nuova, ovvero quella della rivista, dei quotidiani e degli articoli. Le immagini, i dialoghi e il montaggio sembrano scanditi dalla lettura, riga per riga. I dialoghi sono frenetici, le scene sono alternate dai colori e dal bianco e nero – proprio per sottolineare il parallelismo e il confronto con la carta stampata dei quotidiani – e i flashback, molteplici e sfaccettati, sembrano incarnare delle note a piè di pagina. Il bagaglio culturale e le influenze europee del regista texano vengono unite in questi episodi in una wunderkammer, che accoglie nel suo caotico arredamento i pezzi pregiati della cultura cinematografica, architettonica e storica francese, ma anche più globalmente europea, nell’arco temporale degli anni ’60 e ’70.
Ogni episodio assorbe uno o più riferimenti ed è osservabile da più chiavi di lettura, a seconda delle conoscenze cinematografiche di ciascuno spettatore. La patina e l’ambientazione tratte da Mio zio (Mon Oncle, 1958) di Jacques Tati – compreso il chiarissimo riferimento alla scena in cui l’inquadratura verte sulla facciata di un palazzo e mostra i movimenti del personaggio che passa da una finestra all’altra, da una porta all’altra, all’interno della struttura – ma anche la visione delle donne di strada di Federico Fellini o, banalmente, il macrocosmo della Nouvelle Vague, di Truffaut e Godard. In questo immaginario, non bisogna dimenticare anche gli elementi anglosassoni come il celebre «The New Yorker», la suggestione tratta da Il sospetto (Suspicion, 1941) di Alfred Hitchcock oppure l’accuratezza di alcune scenografie dove le scene in interni comprendono oggetti di design tipicamente statunitensi: inseriti fuori contesto, in Francia.
Tale approfondimento e amore per la cultura europea di Wes Anderson, come in Grand Budapest Hotel (2014), rimanda a un suo cortometraggio meno noto, Castello Cavalcanti (2013). Il quale rappresenta visivamente, e concretamente, un omaggio a Fellini e alla cultura italiana. Nato da una collaborazione con la celebre casa di moda Prada e ambientato in un piccolo paesino dell’Italia del 1955, racconta di una gara automobilistica dove uno sfortunato pilota, interpretato dall’immancabile Jason Schwartzman, va a sbattere contro una statua. Le immagini in movimento restituiscono una narrazione popolare (e stereotipata) degli italiani, attraverso la celebre estetica pastello, influenzata tuttavia dal tocco di felliniana filmografia. Girato proprio nella “casa artistica” di Federico Fellini, Cinecittà, Castello Cavalcanti racconta di un paese rurale, e folcloristico, distinto da comparse ed elementi scenografici dettagliati che riescono a dipingere il quadro di una tipica piazzetta italiana.
Il punto di partenza sembra essere simile. Se in Castello Cavalcanti viene ricostruito, in breve, l’immaginario italiano del regista, nel suo ultimo film questo viene amplificato in un lungometraggio a episodi dove sono le suggestioni francesi ad avere il sopravvento. Una ricostruzione fatta di ricordi, film, libri e opere d’arte che restituiscono una panoramica stereotipata ed esteticamente sublime della visione che Anderson ha della Francia e dell’importanza della parola scritta.
Per apprezzare pienamente The French Dispatch bisogna vestire i panni del lettore e non dello spettatore cinematografico. I protagonisti – giornalisti e scrittori – hanno in mano la penna e chi guarda la pellicola deve seguire il percorso tracciato dalle parole. La frenesia dei dialoghi, delle illustrazioni, degli oggetti, complessi e arzigogolati, sono quelli della lettura fugace: lo spettatore diventa lettore per mezzo delle tecniche e dello stile inconfondibile di Wes Anderson, in una sorta di omaggio alla cultura francese e al giornalismo di cronaca e di viaggio. Dove le numerose figure, interpretate brillantemente, arricchiscono il tessuto filmico: dall’arte rinchiusa alla politica rivoluzionaria, dall’enogastronomia impomatata alle indagini poliziesche in un’atmosfera noir.