Eleonora Reggiori
pubblicato 4 anni fa in Letteratura

The road(s) not taken: Paul Auster e il suo “4 3 2 1”

The road(s) not taken: Paul Auster e il suo “4 3 2 1”

C’è un episodio della vita di Paul Auster, raccontato in Why write?, che mi fa sempre sorridere: era un bambino – aveva forse dieci anni – e aveva incontrato in modo del tutto fortuito un giocatore di baseball, all’epoca il suo idolo, ma non aveva una penna con sé, nemmeno una matita, e non era riuscito a ottenere l’autografo che tanto avrebbe voluto. La delusione era stata tale che, una volta tornato a casa, aveva deciso di non uscire mai più senza una matita. Lo racconta sempre ai suoi figli, dice, quando gli chiedono perché, di tutti i lavori che si possono fare, faccia proprio lo scrittore.

It’s not that I had any particular plans for that pencil, but I didn’t want to be unprepared, I had been caught empty-handed once, and I wasn’t about to let it happen again. If nothing else, the years have taught me this: if there is a pencil in your pocket, there’s a good chance that one day you feel tempted to start using it. As I like to tell my children, that’s how I became a writer.

Nella mia immaginazione la figura del Paul Auster bambino si sovrappone a quella di Archie Ferguson – o forse sarebbe meglio dire degli Archie Ferguson –, il protagonista di 4 3 2 1 (Einaudi, 2017).

A chiunque conosca un po’ la produzione di Auster, o si interessi anche latamente di letteratura americana, qualche anno fa non sarà sfuggita la pubblicazione del grosso tomo. Auster è un autore prolifico e certamente più legato alla forma breve. Anche il suo libro più famoso, Trilogia di New York, è snello, a confronto. Credo che 4 3 2 1 sia un unicum nella sua bibliografia non soltanto per via della mole, ma anche perché al suo interno si fondono i due filoni principali ai quali lo scrittore ci ha abituati autobiografia, o autofiction, e memoir, da un lato, e dall’altro la narrativa generale, che contiene a sua volta tutte le detective stories atipiche, abbastanza numerose da meritare una categoria a parte.

Il meccanismo sul quale Paul Auster ha costruito la sua ultima fatica letteraria è simile a quello di unfilm del 1998 con Gwyneth Paltrow, Sliding doors. Nel film vengono indagate le due possibilità di Helen, in seguito alla decisione di salire sulla metropolitana e a quella di non salirci. Auster non è nuovo a questi giochi di specchi, ma in 4 3 2 1 il doppio raddoppia a sua volta, e il protagonista diventa in un colpo solo quattro protagonisti, dopo un prologo in cui viene presentata la famiglia Ferguson.

Come era stato in Trilogia di New York, dove un personaggio di nome Paul Auster emergeva tra le pagine di Città di vetro, riflesso del detective Daniel Quinn, il gioco di specchi tra l’autore e i suoi personaggi è centrale per 4 3 2 1. Archie Ferguson, classico golden boy americano, fin dall’inizio si muove sotto la tirannia del suo autore. Il libro si apre con un prologo che mira a inquadrare l’arrivo dei Ferguson in America, con il nonno Ichabod, un ebreo del Vecchio Continente, esattamente come il nonno dello stesso Auster. La storia della famiglia Ferguson si perde nella leggenda, e Archie non conosce mai il nonno, ma solo la nonna, una vecchina aspra e spigolosa come è descritta la nonna materna in L’invenzione della solitudine. Archie nasce il 3 marzo 1947, esattamente un mese dopo Paul Auster, e i due condividono molto più che l’anno di nascita. Le stesse strade li vedono crescere, i genitori di Auster fanno lo stesso lavoro dei genitori di Ferguson, le tappe delle loro vite sono estremamente simili.

Si legge in Diario d’inverno, l’autobiografia dello scrittore:

Dal giorno in cui sei nato al Beth Israel Hospital di Newark, New Jersey (3 febbraio 1947) giù giù fino al presente (questo freddo mattino di gennaio del 2011), sono i luoghi dove negli anni hai parcheggiato il tuo corpo – i luoghi che, bene o male, hai chiamato casa.

1. South Harrison Street, 75, East Orange, New Jersey. Un appartamento in una palazzina di mattoni piuttosto alta. Età da 0 a 1 e ½. Nessun ricordo, ma, secondo le storie che ascoltasti più avanti nell’infanzia, tuo padre riuscì a prenderlo dando in affitto dando alla padrona un televisore […] Dato che allora tuo padre era proprietario di un piccolo negozio di elettrodomestici, anche l’appartamento dove abitavi con i tuoi genitori era dotato di televisore, il che fece di te uno dei primi americani, anzi uno dei primi uomini in tutto il mondo, a crescere fin dalla nascita in presenza di un televisore».

E dopo East Orange, Union, South Orange, Newark, finché non venne il momento di trasferirsi in una stanzetta del dormitorio della Columbia University. Poi Manhattan, e Parigi, New York di nuovo. Quelli che hanno accolto Auster nel corso degli anni sono gli stessi luoghi in cui si snodano le vicende di 4 3 2 1.

Il negozio di elettrodomestici degli Auster diventa quello che il padre di Ferguson gestisce insieme ai suoi fratelli, MondoCasa, e subisce quattro sorti distinte in 4 3 2 1: da qui si sviluppano le quattro storie degli Archie. Nonostante i destini diversissimi, e le vite a volte opposte, alcuni punti fermi accomunano tutti e quattro i protagonisti.

In primo luogo, la scrittura: come per tutti i personaggi di Paul Auster, anche gli Archie graviteranno tutta la vita intorno a un’idea più o meno romantica del lavoro di scrittore, finendo a scrivere per il giornalino della scuola, a stendere articoli sportivi per il Monclair Times o a progettare un romanzo ambiziosissimo. Da ciò traspare un’attrazione ineluttabile verso la parola scritta, tensione che per Archie è sentitissima proprio perché così è per l’autore stesso; non è un caso che l’opera a cui Archie-4 lavora si chiami Il taccuino scarlatto, un evidente richiamo a Il taccuino rosso (Einaudi, 2013, collana I Quanti). In L’arte della fame, Paul Auster dirà che «Scrivere non è più un atto di libera scelta per me, è una questione di sopravvivenza», la stessa sopravvivenza che si gioca tra le pagine del libro quando Archie si butta tra le pagine dei suoi quaderni dopo la sua prima, grande delusione: «Nei tre anni da studente delle superiori nei sobborghi del New Jersey, il sedicenne, diciassettenne e diciottenne Ferguson iniziò ventisette racconti, ne finì diciannove e trascorse non meno di un’ora al giorno con quelli che lui chiamava i suoi taccuini di lavoro, che riempì di vari esercizi di scrittura inventati da sé per stare all’erta, andare a fondo e cercare di migliorare (come disse una volta a Amy)».

Non solo letteratura, però: 4 3 2 1 riesce anche nell’impresa di parlare degli Stati Uniti in cui i suoi personaggi si muovono. Dal 1947 al 1975, Ferguson si muove in uno spazio costruito con grandissima accuratezza, al cui interno gli eventi storici sono sempre vissuti in prima persona, problematizzati. E di fianco alla Storia, ci sono sempre le storie della gente, il contesto culturale degli anni Cinquanta e quello degli anni Sessanta, la musica e le frivolezze.

Gli Archie sono appassionati di cinema e di baseball, parlano della guerra in Vietnam, presto o tardi arriveranno in Europa, e si stabiliranno a Parigi per tempi più o meno lunghi; andando a vivere magari in soffitte economiche e polverose come fece Auster, a Parigi dal 1971 al 1974. Ciascuno di loro ha poi la sua Amy: bionda, energica, di volta in volta fidanzata, cugina, amica, sorellastra. È quasi impossibile non vedere in lei il riflesso di Siri Hustvedt, attuale moglie dell’autore, scrittrice a sua volta, studiosa coltissima. Bionda e alta, determinata. Le parole di Hustvedt, riferite in Diario d’inverno,potrebbero essere della stessa Amy, che parla in modo volitivo, studia con passione, scuote più volte Ferguson dal suo torpore:

Le chiedesti più volte perché era così importante per lei, e le varie risposte che ti diede portano tutte al cuore della persona che era e che è ancora oggi. Primo: perché non poteva accettare di piantar lì qualcosa che aveva iniziato. Questione di caparbietà e di orgoglio. Secondo: perché era una donna. Se tu avevi lasciato l’università dopo un anno, tutto bene: eri un uomo, e gli uomini controllano il mondo; ma una donna che porta cuciti i gradi di un dottorato può guadagnare un po’ di rispetto in quel mondo al maschile, […] Terzo: perché le piaceva da morire. La fatica e la disciplina dello studio intenso avevano migliorato la sua mente, l’avevano resa una pensatrice più valente e sottile e anche se nel futuro la maggior parte del suo tempo sarebbe stata dedicata a scrivere romanzi (aveva già iniziato il primo), non intendeva abbandonare la vita intellettuale una volta finito il dottorato.

Amy è la «compagna indispensabile che gli era entrata nella pelle», la persona con la quale confrontarsi sempre e condividere passioni e ossessioni, come Hustvedt per Auster. Una volta letta anche la sua produzione sarà evidente quanto, nel corso degli anni, si siano influenzati a vicenda.

In Inganno, Philip Roth ha scritto che «nel cuore della natura di uno scrittore c’è il capriccio. Curiosità, fissazioni, isolamento, veleno, feticismo, austerità, leggerezza, perplessità, infantilismo eccetera». 4 3 2 1 raccoglie tutte questi elementi e li macina per ottenere un romanzo di formazione di straordinaria bellezza.

«Diciamo sempre che bisogna penetrare in uno scrittore per meglio capirne l’opera. Ma se ci si spinge veramente a fondo, non c’è molto da scoprire… perlomeno, c’è poco di diverso da ciò che troveremmo in chiunque altro» (Trilogia di New York): per chiunque voglia davvero capire Paul Auster è sufficiente leggere con cura 4 3 2 1. La prima lettura di Diario d’inverno è stata una doccia fredda, perché la tendenza è sempre quella di mitizzare i grandi scrittori, porli su un altare e dal basso guardarli come esseri straordinari. Il punto è che bisogna prendere l’opera e concentrarsi su di essa.

Una volta che si è zittito il rumore bianco e che ci si è dedicati a 4 3 2 1 con tutta l’attenzione necessaria, si vedrà il riflesso di un uomo, e non di uno scrittore. Se è vero che «ogni uomo ha in sé diversi uomini, e la maggior parte di noi rimbalza da un’identità all’altra senza nemmeno sapere chi è» (Follie di Brooklyn), l’obiettivo dell’ultimo libro di Auster è mostrare quali sono i diversi uomini che vivono dentro a un singolo, parlare dei loro desideri, anche quelli mai esternati, e delle loro paure, mostrare i meccanismi di una vita che si srotola lungo le pagine con una naturalezza difficilmente eguagliabile.

Esattamente come Auster – forse – non sarebbe diventato uno scrittore senza aver perso l’occasione di farsi autografare un pezzo di carta dal suo idolo sportivo, Ferguson ha seguito quattro percorsi diversi perché un singolo evento ha avuto quattro esiti diversi, nel New Jersey degli anni Cinquanta. 4 3 2 1 prova a rispondere alla domanda più comune di tutte, quel What if…? su cui sono stati scritti innumerevoli romanzi. E se, però, la risposta più calzante fosse quella più fastidiosa? Che non c’è mai un perché, ma solo un inanellarsi di casualità, magari anche indipendenti da qualsiasi sforzo, in qualsiasi senso.

Insomma, la morale è che ogni vita non può ridursi ad altro che a sé stessa. Che è come dire: le vite degli uomini non hanno senso (Trilogia di New York).