The Wilds: il teen drama distopico che racconta il trauma di essere adolescenti
La ferita è il luogo da dove entra la luce.
Questa frase del poeta persiano Rumi, citata in un episodio, offre una perfetta chiave di lettura per comprendere l’esperimento che sta alla base di The Wilds (2020), prima serie tv young adult targata Amazon Prime Video. Definita con l’espressione poco adeguata di “pigiama party distopico”, in realtà affronta temi complessi e dolorosi in maniera molto matura. Prima degli episodi, infatti, un avviso indica la presenza di scene forti, che la rendono adatta a un pubblico che abbia più di sedici anni.
Le protagoniste sono nove ragazze dirette alle Hawaii per partecipare a un ritiro interamente al femminile chiamato L’alba di Eva. Una vacanza per staccare dai problemi e riscoprire sé stesse che si trasforma in un incubo quando si ritrovano su un’isola in mezzo all’oceano, dopo essere sopravvissute a un incidente aereo, e si rendono conto che i giorni passano ma nessuno viene a salvarle.
La trama ricorda due classici, uno della serialità televisiva come Lost (2004-2010) e l’altro della letteratura, Il signore delle mosche (1954) di William Golding. The Wilds, però, si discosta da entrambi.
In ogni puntata si intrecciano tre piani temporali: i flashback che raccontano la vita delle giovani prima dell’incidente, i momenti trascorsi sull’isola e infine il periodo successivo al salvataggio, in cui ognuna è chiamata a raccontare cosa è successo e come hanno affrontato le difficoltà della sopravvivenza.
Già dai primi episodi viene svelato che dietro tutto si nasconde un esperimento sociologico. L’incidente non è stato casuale, e non lo è nemmeno il fatto che il gruppo sia formato da determinate ragazze, adolescenti profondamente diverse per carattere, status sociale e provenienza, ma tutte accomunate da traumi di varia natura.
Attraverso le loro storie la serie parla di dipendenza affettiva, disturbi alimentari, lutto, omofobia, violenza sessuale, fanatismo religioso, che dietro alle belle parole maschera messaggi di odio, punendo ogni devianza da ciò che è considerata la norma e provocando disprezzo nei confronti di sé stessi pur di adeguarsi a quell’ideale.
Questi argomenti ormai vengono trattati abbastanza spesso dai teen drama contemporanei: la particolarità di The Wilds sta nel condensarli in un unico prodotto, basando la narrazione su di essi e inserendoli in una realtà distopica che permette di sviscerare certe dinamiche.
Pian piano, infatti, l’isola porta le ragazze a emanciparsi dalle aspettative e dal giudizio altrui, spingendole a riflettere sulla propria identità senza condizionamenti sociali. Non a caso il ritiro a cui erano dirette si chiama L’alba di Eva, a indicare un ritorno alle origini e la necessità di occuparsi di questioni basilari per la sopravvivenza, come procurarsi cibo o un riparo.
Questo permette alle ragazze di guardare le cose da una nuova prospettiva, a volte liberandole da pensieri che prima risucchiavano completamente la loro attenzione, costringendole ad affrontare in maniera diversa certe situazioni anche grazie alla convivenza forzata con le altre.
Il percorso è tutt’altro che semplice. Inizialmente la solitudine porta le giovani a sentire ancora di più il peso di ciò che si sono lasciate alle spalle. Alcune restano molto legate alla loro vita passata e non vedono l’ora di ritornarci. Il periodo trascorso sull’isola, però, serve anche a elaborare il fatto che il futuro sarà diverso da quello che sognavano perché, come mostrano i flashback, qualcosa nelle loro vite non è andata come volevano.
Non avere altre distrazioni le obbliga a confrontarsi con loro stesse, prima ancora che con le altre, sperimentando una libertà mai provata prima, che all’inizio a qualcuna fa paura.
Nonostante alcune ragazze suscitino più empatia, uno dei punti di forza di The Wilds è che tutte le loro storie risultano convincenti, grazie anche ad attrici talentuose e a una scrittura capace di tratteggiare con cura la psicologia delle protagoniste, talvolta soltanto attraverso alcuni dettagli. Ogni spettatrice può identificarsi maggiormente in una di loro ma scorgere un po’ di sé anche nelle altre: in certe situazioni vissute, in certe emozioni, in certi disagi.
Un sentimento che emerge in tutte è la rabbia. In alcune è una caratterista preponderante, in altre invece è tenuta a freno. In entrambi i casi è qualcosa con cui devono imparare a fare i conti, senza reprimerla pur di corrispondere a un modello di perfezione e senza nemmeno farla diventare una forza autodistruttiva.
Inoltre, spesso la rabbia delle ragazze viene sminuita, o stigmatizzata come follia, soprattutto quando non si adattano a certe convenzioni. Altro elemento che ritorna è proprio la paura di essere considerate pazze, come dimostra ciò che afferma una delle protagoniste alla fine della prima puntata:
Non siamo pazze. Siamo solo devastate. Quando cercherete di capire perché, non perdete tempo incolpando l’isola.
Queste parole servono a sottolineare che è stata la vita prima dell’incidente a segnare queste giovani. Ciascuna ha un trauma da superare, e a rendere la storia ben riuscita è che ogni ragazza ha una personalità ben definita, che va oltre alle apparenze e ai classici stereotipi che inizialmente potrebbe rappresentare.
In base al carattere, alle attitudini e alle competenze ognuna assume un ruolo diverso nell’organizzazione del gruppo, ma allo stesso tempo c’è molta mobilità al suo interno.
Ad analizzare ogni loro comportamento ci sono alcuni studiosi che le tengono sotto osservazione. Come accennato, infatti, le ragazze sono protagoniste inconsapevoli di un esperimento pseudo-femminista con cui una ricercatrice vuole dimostrare che, dopo essersi liberate del retaggio patriarcale, le donne sono capaci di dar vita a società che funziona meglio rispetto a quella dominata dagli uomini. Ma basta cambiare il genere di chi è al potere per risolvere i problemi e le ingiustizie?
Un’idea simile era già stata esplorata nel romanzo distopico Ragazze elettriche (nottetempo, 2016) di Naomi Alderman, che mostrava chiaramente come non fosse questa la soluzione, dato che il modo di gestire il potere restava immutato.
Anche in The Wilds emergono le criticità di un simile progetto. Chi lo conduce da una parte si autocompiace del proprio gesto rischioso ma rivoluzionario, e afferma di voler creare un mondo più equilibrato, dall’altra continua a perpetuare meccanismi che ripropongono antiche dinamiche di potere. Come viene sottolineato in un episodio, manca una cosa fondamentale: il consenso. Pur di raggiungere il proprio scopo, in nome di un bene collettivo, si ignora completamente il volere di queste ragazze, tenute all’oscuro di tutto.
Addirittura, durante i colloqui dopo il salvataggio, in alcuni casi si cerca di instillare in loro il senso di colpa, in modo da togliersi di dosso la responsabilità di quelle circostanze che sono andate fuori controllo. Proprio come accade nella realtà a cui siamo abituati: la colpevolizzazione è uno strumento per sottomettere.
Ritornando alla frase di Rumi citata in apertura, le cicatrici di queste ragazze diventano un modo attraverso il quale spingerle a scoprire sé stesse, permettendo alla luce di entrare e svelare certi meccanismi sociali e forse farle guarire. I metodi utilizzati, però, restano ovviamente inaccettabili dal momento che le ragazze vengono manipolate e messe a rischio.
La storia si concentra su come le protagoniste elaborano i propri traumi in condizioni completamente insolite. Da questo punto di vista è possibile notare alcune ingenuità narrative nel racconto della sopravvivenza sull’isola, ma d’altra parte a interessare maggiormente sono la loro vita precedente e la fase successiva, quella del ricordo e dei segni lasciati da un’esperienza estrema, più che l’organizzazione di una nuova società.
Già confermata per una seconda stagione, The Wilds ha gettato delle buone basi per un prodotto che, a dispetto del genere a cui appartiene, offre interessanti spunti di riflessione che non riguardano soltanto l’adolescenza.