Federico Musardo
pubblicato 6 anni fa in Recensioni

Un mondo di storie

"Ovunque sulla terra gli uomini" di Marco Marrucci

Un mondo di storie

Disperai subito di un cambiamento. Non credetti neppure un istante al miraggio della liberazione e dell’inestinguibile deriva in mare aperto. Ero il cammello nella cruna d’ago che non raggiungerà mai il regno dei cieli (p.42).

Però devo rubare ancora un po’ di tempo a questa notte che congiura insieme al vento e alla neve, perché non ho ancora scritto niente che la paura o il dubbio non possano avvelenare (da qui i fraseggi decomposti, da qui il lessico trasmutato) e le articolazioni delle battute non sono affatto chiare. Per adesso ho soltanto un inizio folgorante e un finale, che siamo io e te nella crisalide di un tempo dilatato che si approssima all’eternità (p.67).

Racconti edizioni è sicuramente una delle realtà editoriali nostrane più fresche e interessanti, conosciuta forse soprattutto per la pubblicazione di Dal tuo terrazzo si vede casa mia di Elvis Malaj, un libro che ha ottenuto, a mio avviso meritatamente, parecchi consensi.  

Ovunque sulla terra gli uomini (2018) è l’esordio narrativo di Marco Marrucci. È un libro davvero sorprendente.

Il diario di Manuelita apre la raccolta e ci viene raccontato dalla memoria di una giovane salvadoregna che intesse un universo di ricordi agrodolci, quasi onirici e al contempo stranamente tersi. Manuelita narra la storia di sua sorella che di nascosto, una notte, sgattaiola fuori dalla finestra e compie un viaggio fantastico e misterioso per andare incontro a Estrella, nome con cui hanno battezzato una piccola volpe che di tanto in tanto si intrufolava nel loro giardino. Alla fine della raccolta, si conoscerà anche il diario della sorella, Rema, quindi un altro punto di vista, quello inizialmente taciuto, dalla cui mancanza sono lievitate tutte le fantasie dei lettori. Dov’è andata, Rema, insieme a Estrella? Marrucci mi piace anche e soprattutto perché scrive bene e non ha paura di abbandonare il lettore alle sue congetture.

A questo primo racconto segue una delle potenzialmente infinite versioni della leggenda mongola di Gombro e Tuya,

i custodi della dottrina, la controparte mongola dell’angelo o del totem, gli araldi chiamati a tracciare quel limite e a impartire quella lezione. Ricordandone le vicende i popoli della taiga possono continuare ad aver fede nell’esistenza di un mondo ulteriore senza dimenticare che il loro, l’unico concreto e abitabile, è fatto di carne e sangue, prosperità e carestia, fatica e riposo, mortalità e semenza (p.21)

Quando Gombro priva la taiga di un fiore per donarlo a Tuya («questo fiore è l’amore che provo per te»), lei sperimenta un’esperienza ascetica apparentemente asettica, cede i suoi occhi al fiore e, come era successo con il primo racconto, compie un altro viaggio, stavolta criptico e tutto mentale; impedisce alla comunità nomade di trasmigrare, paralizza gli altri, curando il fiore anziché sé stessa fino a cadere in un letargo mnesico, in un’atmosfera di silenzio sacro. Gombro, segnato per sempre dal senso di colpa, avrebbe abbandonato il villaggio per vivere, espiando, un’esistenza raminga, afigurale, «dove un fiore era un fiore e non l’amore di Gombo per Tuya» (p. 32).

Il terzo di questa raccolta è un racconto fiorentino, notturno («in quell’ora buona solo per i criminali, i sonnambuli e le lune piene»), urbano e alcolico. Quella di Marrucci è una scrittura piena di rifrazioni. Per certi versi, leggendo, si ha l’impressione di lanciare un sassolino in uno stagno:

Poi il mondo si capovolse d’improvviso, con muta catastrofe e ansia furibonda, ma lo dedussi esclusivamente dalla ricalibratura della gravità e dallo sciabordio delle viscere, perché non vidi niente se non una manciata di graffi luminosi e isterici su campo nero (era il riverbero dei lampioni sull’acqua). Conobbi il dolore lancinante della clavicola che si frantuma e lo schianto granuloso che accompagna la polverizzazione delle ossa. Il naso che impattò sul terrapieno fu ingolfato dall’odore di menta selvatica e dal gusto ferroso, sempre spiacevole e latore di disgrazie, del sangue. Mi trovai sopraffatto dalla paura e dallo sgomento, arrischiai un mozzicone di avemaria e sperimentai l’abbraccio tumido dell’acqua, che quella notte significò freddo repentino, un incantesimo di sospensione, ovatta nelle orecchie e polmoni allagati (p.37-8).

Il protagonista di questa caduta vive quasi una metamorfosi e fa esperienza del mondo nuotando come un pesce, in un susseguirsi di viaggi catabasici dagli abissi alla superficie dell’acqua.

Contaminazione, il quarto racconto, è ambientato a Melbourne e ha come protagonisti Maurice e la sua osteria gourmet, il sacrificio inutile di una blatta e una violenza masochistica per purificarsi e scongiurare il contagio, la reazione dello chef, invasato, la sua paura di un’orribile metamorfosi.

Il più grande mercato berbero del mondo è la storia di Jerome, turista  a Marrakech, e del suo strano viaggio su una Vespa.

Non mi lasciare Marten, ti prego, non mi lasciare ha quasi una struttura da finta lettera. Una voce femminile, sull’orlo dello sconforto, ferma di fronte al campanello dell’uomo di teatro da cui aspetta un bambino, cerca di immaginare se sapranno amarsi ancora.

Bokujou racconta la storia di Yuji Kojima (uno studente giapponese che offende la maestra di matematica) e della sua violenta e straniante espiazione:

Momentaneamente in salvo nel suo fazzoletto di cielo, Yuji iniziò a fantasticare di un ponderoso almanacco divino in cui veniva stabilita una volta per tutte la contropartita (prebende o punizioni atroci) che spettava a ogni gesto compiuto da ogni uomo sulla Terra, immaginò che l’orripilante tomo della contabilità umana fosse custodito in un cassetto dell’ufficio di presidenza della Bokujou, pensò con rammarico e incredulità che la matematica si occupa proprio delle leggi della proporzione e dell’equivalenza, e mentre da un velario cencioso stavano per affacciarsi i volti sconsolati (tanto sconsolati da risultare deformi) di sua madre e suo padre, l’interfono crepitò di vita elettrostatica e la voce del dirigente scolastico annunciò senza passione il nome del colpevole (pp.73-4).

Anche Punta Loma, California ha un tempo e uno spazio raggomitolati su loro stessi. La polizia bussa alla porta di un reverendo che, come se non fosse successo niente, rimugina su Giobbe e sull’Antico Testamento.

Le notti sopra la Tessaglia sono state vissute e pescate, tempo fa, da un nonno che ora ricorda insieme a suo nipote:

Avevamo bisogno della notte. Dovevamo andare a prenderla ogni giorno, anche se eravamo stanchi, anche se avevamo la febbre o diluviava o l’amore della nostra vita ci aveva abbandonati due ore prima (p.96).

Alcuni temi di questa raccolta sono la morte, il viaggio (soprattutto ascetico), l’abisso che fende un’esistenza, la metamorfosi, i ricordi che riaffiorano, contaminati, alla memoria. Se dovessi trovare un’immagine per il vocabolario di questo scrittore, penserei per esempio a un arcobaleno (anche fantastico, sulle tonalità del grigio), o a un prisma. Marrucci scrive benissimo, usa una lingua pazientemente calibrata, scrupolosa, evocativa.  Vale sicuramente la pena leggere Ovunque sulla terra gli uomini per scoprirlo. Dubito che potreste contraddirmi.

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