Chi salva un libro, salva il mondo intero
Con un libro in mano apro gli occhi su un mondo diverso da quello dove appunto stavo, perché io quando incomincio a leggere sto proprio altrove, sto nel testo, io mi meraviglio e devo consapevolmente ammettere di essere davvero stato in un sogno, in un mondo più bello, di essere stato nel cuore stesso della verità.
Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal – eccentrico scrittore ceco nato a Brno nel 1914 e morto a Praga nel 1997 – è un libricino di appena ottantaquattro pagine. Un libro piuttosto breve, dunque, di quelli che possono essere gustati appieno in un solo pomeriggio, ma soprattutto un’operetta onirica e surreale, dai contenuti originalissimi e dal tono leggero e trasognato.
Partiamo dal titolo: un ossimoro certamente d’effetto. Che cosa significa? La nostra esperienza di uomini – ancor prima che di lettori – lo collegherà immediatamente alla nostra quotidianità, ai nostri istanti di solitudine, quando ricapitoliamo una giornata appena trascorsa o spendiamo interi minuti a rimuginare e a riflettere su di noi, gli altri e il mondo, quando la mente si affolla di pensieri – di certo rumorosi – che vorremmo scacciare o risolvere in qualche modo, e che invece rimangono lì, come invisibile tarli. Hrabal ovviamente intende tutto questo. Ma c’è anche dell’altro, che poi è proprio la storia di Hanta, il protagonista-narratore del libro.
Hanta – e ce lo ricorderà lui stesso, di continuo: la formularità è uno dei tratti peculiari dello stile di Hrabal, quasi orale – lavora da ben 35 anni ad una pressa meccanica posta nelle viscere di un vecchio e sudicio magazzino di Praga. Il suo lavoro è semplice e ripetitivo, solitario e rumoroso: ogni giorno Hanta viene letteralmente sommerso di carta da raccogliere, pressare e trasformare in bigi parallelepipedi, tutti uguali; deve distruggere o, meglio, annichilire carta di tutti i tipi: giornali cittadini, riviste sportive e filosofiche, le carte sporche e insanguinate delle macellerie, le riproduzioni cartacee dei più famosi dipinti, libri di ogni genere. Niente di eccessivamente complicato: Hanta deve solo sollevare un po’ di carta dall’immenso cumulo che gli fanno piovere dall’alto, dal mondo-di-sopra, inserirla nel bacino della pressa e infine azionare il macchinario tramite due diversi pulsanti: verde, perché la parete della pressa vada in avanti, e rosso, perché si muova all’indietro. Nella pressa finiscono pure gli oggetti più imprevisti casualmente mescolati alla carta, e persino gli insetti della carne o i topi che affollano il magazzino.
C’è però qualcosa che un meccanismo non potrà mai prevedere: la curiosità umana. Ogni volta che Hanta scorge un libro nell’informe mucchio di carta marcescente e maleodorante, lo salva dalla distruzione e lo porta a casa, per leggerlo e poi conservarlo. In tal modo è entrato in contatto con una serie infinita di testi – il Talmud ebraico, decine di enciclopedie – e con centinaia di autori: Kant, Hegel, Platone, Erasmo da Rotterdam, Nietzsche, Goethe, Hölderlin, Schiller, il taoista Laozi e altri.
Hanta ha salvato un tale numero di volumi che casa sua adesso ne è stracolma, ai limiti dell’inverosimile: ci parla di più di due tonnellate di libri ammucchiati, accatastati, impilati secondo i criteri più strambi e vari, tanto che deve fare attenzione quando va in bagno o si mette a dormire – un movimento improvviso o inconsulto potrebbe destabilizzare qualche colonna di libri e sotterrarlo sotto mezzo quintale di carta. Non potendo più portare altri libri a casa, si adopera per un’altra soluzione; prima di ultimare la pressa di un determinato blocco di carta, vi pone sopra un volume che gli è particolarmente caro, aperto a una certa pagina o su un certo passo, e poi preme il pulsante verde. Il blocco pressato conserverà così, in maniera più o meno evidente, il libro destinato alla cancellazione. Ma non finisce qui: vi ricordate le stampe dei dipinti di cui parlavo sopra? Riproduzioni di opere di Van Gogh, Manet, Rembrandt, Klimt, Cézanne, ecc.: il solitario operaio utilizza queste carte per imballare i parallelepipedi cartacei prodotti dalla pressa, creando così delle piccole e colorate opere d’arte. Altri libri, poi, li regala ad un cappellano e ad un professore di filosofia suoi conoscenti. Inutile dire che questo suo modo di lavorare gli procura incredibili ritardi sulla tabella di marcia, nonché aspri rimproveri da parte del suo capo.
Va poi detto che tutte queste operazioni Hanta le compie tracannando grandi dosi di birra – più di cinque litri al giorno –, a causa della quale è costantemente ubriaco e ancor più lontano dalla realtà, costantemente immerso nel flusso dei suoi pensieri. Nel frattempo, proprio come farebbe un ubriaco, ci racconta la sua vita in modo alquanto sconnesso, come di sfuggita. Hanta parla facendo continui voli pindarici, passando da un tema all’altro, come in un sogno; ha persino delle visioni: vede, nel vero e proprio senso della parola, Gesù e Laozi vicino alla sua pressa, oppure Kant che si prende una salsiccia all’angolo della strada – e qui l’effetto è indubbiamente divertente.
Riesce anche a parlarci, tra le altre cose, della sua breve e commovente storia d’amore con un’innominata zingara praghese conosciuta durante la Seconda Guerra Mondiale – e questa è, a mio parere, una delle più belle parti del libro.
L’esistenza di Hanta subisce un duro colpo quando egli si reca a visitare un nuovo stabilimento a Bubny, dove per pressare i libri viene utilizzata una gigantesca pressa idraulica, grande come venti delle sue presse. Gli operai, vestiti tutti uguali e assolutamente anonimi, buttano i volumi nella pressa senza darci nemmeno un’occhiata e sono completamente indifferenti al fascino della letteratura; non nutrono alcuna curiosità verso la conoscenza. Hanta, sconvolto, sa di essere ormai superato e obsoleto: lo spettacolo che gli si offre davanti agli occhi è, molto semplicemente, il futuro. Il suo mondo è finito.
Il libro di Hrabal è una triste e bellissima parabola. Hanta, questo bevitore di birra insolito e stravagante che, nel suo grande amore per i libri, li trascina via con sé sull’orlo della distruzione, prima ancora di salvare la cultura o l’arte, salva l’umanità intera e soprattutto la sua possibilità di creare e ri-crearsi. È un vero eroe letterario, completamente fuori dal suo tempo, che alla miseria dell’efficacia industriale e alla vacuità della soppressione – anche materiale, non solo ideale – del passato, preferisce la creatività e la memoria, anche – persino! – nel presente. E così farà fino alla fine della sua storia.
In Hrabal il «libro» è insieme simbolo e metafora, sogno e verità, ma è soprattutto un «libro-infinito», cioè una lente invisibile e mistica puntata verso l’eternità. La Babele che Hanta combatte non è tanto quella formata dalla proliferazione incontrollata, caotica e senza fine di libri e tomi – come invece accade ne La Biblioteca di Babele di Borges, dove i libri vanno a creare metaforicamente un universo illusorio, labirintico e infinito –, quanto piuttosto la confusione umana, che accomuna i libri alle cartacce da macellaio o alle carte da parati, e che svilisce l’arte, la degrada e infine la conduce ad una fine tristemente anonima.
La letteratura, la filosofia e l’arte per Hrabal sono innanzitutto una fonte di speranza, una luce nel buio, un inesauribile fuoco spirituale; sono inestimabili forme di bellezza, e come tali vanno preservate, scoperte, amate e finanche reinventate: l’importante è che continuino a vivere e a suscitare meraviglia, nei secoli dei secoli, oltre ogni pressa, censura e convenzione sociale.
In questo senso, potremmo dire – riformulando una famosa frase contenuta proprio nel Talmud – che chi salva un libro, salva il mondo intero.