Culturificio
pubblicato 5 anni fa in Letteratura

Una storia operante nel quotidiano: le prime opere di Vasco Pratolini

Una storia operante nel quotidiano: le prime opere di Vasco Pratolini

È spesso inutile o deleterio filtrare l’opera di un autore attraverso la sua biografia, ma in alcuni casi è necessario. È così per Vasco Pratolini. Fiorentino, sottoproletario, autodidatta, Pratolini ha trovato nella socialità l’antidoto ai suoi mali e ne ha fatto letteratura. Scriveva nel 1943 sulla rivista «Architrave»: «Io voglio riacquistare il mio cuore fra gli uomini, parlare di loro nella fatica che ho accettato vivendo: lavorare, ma non, parlandone, dimenticarmi di loro, fare sui loro rapporti che mi investono, della psicologia che li tradirebbe e mi tradirebbe. […] Io non voglio ridurre a una tecnica il mio cuore. Io credo di dovere, se voglio prestar fede al mio essere scrittore, parlare agli uomini ascoltandoli, ascoltarmi in essi».

Narratore della Firenze compresa tra via del Corno, via de’ Magazzini e il quartiere di Santa Croce, è stato acclamato per Cronache di poveri amanti e distrutto dalla critica di partito per il suo Metello, «più in camera da letto che alla Camera del lavoro» come disse Carlo Muscetta. Ma nel torto Muscetta aveva ragione, perché la Storia che Pratolini ha sempre inseguito si fa anche – e soprattutto – in camera da letto. Nell’incontro, nelle relazioni, nei sentimenti. La Storia si spiega, nei romanzi più noti e compiuti di Pratolini, solo attraverso l’uomo. Nelle prime opere, invece, si coglie un’altra verità: volendo raccontare sé stesso, Pratolini non può fare a meno di parlare della Storia. E allora ci si accorge che questi due elementi trovano equilibrio nella loro artefice: la società.

Ed è già, allora, sin dalle prime opere memorialistiche, neorealismo. Descrizione attenta dei luoghi, rappresentazione della condizione umana, aderenza a una realtà minima che si fa universale sono temi presenti già in Una giornata memorabile (1936) – racconto centrale della prima raccolta, Il tappeto verde (Vallecchi, 1941). Il tono lirico delle riflessioni del protagonista, un ragazzino che si scopre parte della comunità, non intacca il realismo con il quale vengono rappresentati i monelli fiorentini, che «budano» la fabbrica, giocano a calcio con palloni di carta di giornale, trasformano i Pratoni della Zecca in bische, rubano, truffano dando il via alla «più bella scazzottatura che barba di regista abbia mai rappresentato». Non c’è un giudizio, non c’è buonismo; né giustificazione né esplicita critica sociale. C’è solo la meraviglia di un ragazzo che si sente svezzato alla vita: «imparavo a guardare più a fondo gli uomini e le cose, almeno fino al fondo di me stesso se non al fondo di esse cose e di essi uomini. Fino a quel momento io ero appartenuto alla comunità dall’esterno…».

Ed è già neorealismo il primo romanzo, Via de’ Magazzini (Vallecchi, 1942), in cui il bambino protagonista impara a «distinguere gli uomini l’uno dall’altro guardando dagli interstizi di una balaustra dentro una camerata di soldati». E dai primi amici soldati riconoscersi poi nei coetanei e nell’amore, che come in Una giornata memorabile è conclusione e inizio. Mentre l’io narrante si fa sociale ci riporta una cronaca che è già Storia: la scuola trasformata in caserma, le «code» la mattina, il martello del ciabattino che scandisce il tempo, le campane del Bargello che suonano l’armistizio.

E sono già neorealismo i ritratti di Le amiche (Vallecchi, 1943), creature misteriose che il narratore non riesce a capire e a spiegare, e con il suo silenzio rende vere: ognuna diversa e tormentata ma piene di una segreta dignità. Pratolini compone un quadro della condizione femminile: Clara che lavora in fabbrica e parla della sua casa «come per farsi perdonare il peccato di abitare nelle baracche sul torrente»; Jone che passa le notti col fidanzato e viene accusata d’immoralità; Mara che ancora vergine accetta di prostituirsi; Gloria che gira le case chiuse col suo bambino; Alda «che aveva perduto la madre da bambina […] adesso era lei ad accudire il padre»; Anna che ha la propria sartoria e «un volto quieto, severo, poco dipinto, di donna che affida al suo carattere la propria bellezza»; Laura che per non restare sola accetta il primo uomo che la madre le propone e dimentica sé stessa. Lida la cantante di strada, Cora la contadina, Bianca la malata. E Vanda: «Era il 1938; i rossi spagnuoli avevano perduto Brunete, un marito aveva ammazzato la moglie, il Governo votava la legge sulla razza, ma erano tutti fatti che passavano lontano da noi, titoli di giornale». Lontano da lui forse, ma per lei, che «si faceva donna giorno per giorno», quella è la Storia che irrompe nella quotidianità.

Pratolini partecipa alla Resistenza e diventa più consapevole il legame tra uomo, società e Storia: il singolo entra nella Storia fianco a fianco ai propri simili. Scrive Il Quartiere, «uno dei pochissimi libri utili della recente narrativa italiana» secondo «Il Politecnico». Racconta il passaggio all’età adulta di un gruppo di ragazzi del quartiere di Santa Croce a metà anni Trenta: la scoperta dei pantaloni lunghi e dei tacchi alti, il lavoro, la povertà, gli amori e le piccole gioie, le domeniche in compagnia di un grammofono. C’è chi si perde e c’è chi resiste ritrovandosi nella comunità. Emerge una coscienza politica. La coesione e la resistenza del «popolo minuto», la ricerca sociale e personale diventano corali. Pratolini inizia ad abbandonare l’io in favore del noi: «Se io vi parlo di vizio, di cose brutali e immonde nel nostro Quartiere, voi che dite? […] Se io vi parlo di vizio, voi dite che ciò è naturale nelle nostre strade. Ma entrate nelle nostre case, nell’anno di grazia 1932, dopo tanta letteratura che se n’è fatta; vestite i nostri panni; ingoiate la miseria che ci assiste giorno e notte, e ci brucia come un lento fuoco o la tisi. Resistiamo da secoli intatti e schivi».

L’attenzione di Pratolini verso il popolo – gente comune ritratta nella propria quotidianità e nei propri affetti – gli ha attirato spesso l’etichetta di «populista», un termine già generico e che oggi ha assunto sfumature che lo rendono ancora più inadeguato a descriverne la poetica, che il critico Francesco Paolo Memmo ha più opportunamente definito «degli umili». È qui che diventa importante conoscere la biografia dell’autore: il «populismo» non è una posa, non è un’elegia di qualcosa di estraneo e romantico. Sono le esperienze dell’autore a farsi materia narrativa e il suo processo di maturazione a permettergli di passare dal sé al noi all’egli, come sarà in Cronache di poveri amanti, neorealismo in senso stretto, rinforzato dalla consapevolezza, dalla libertà e dalle speranze del dopoguerra. Pratolini stesso non ripudia l’etichetta di «populista», ma la chiarifica quando dà una definizione di cosa fu per lui il neorealismo: «un’illusione populista, perché no? Un chinarsi verso il popolo anziché essere popolo, c’è chi si autocritica adesso, quasi se ne vergogna: un modo di conoscersi e di riconoscersi prima di diventare: sarebbe stato abbietto, populista in senso veramente deteriore, fingersi popolo avanti di esserlo…».

di Angela Santi

Fonte dell’immagine