Camilla Gazzaniga
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

“Vuoto d’aria” di Clémentine Haenel

tutte le occasioni di dissipazione

“Vuoto d’aria” di Clémentine Haenel

Ci sono cose di cui si crede di non poter parlare o scrivere, anche se si avverte lo stesso la voglia di farlo. Scriverle, così come sono, sembra impossibile persino in un diario personale, perché rimarrebbero sulla pagina come una sentenza. Ma la narrazione, qualsiasi sia la sua forma, forse può rendere normale ogni evento, anche il più drammatico, come scrive Annie Ernaux (premio Nobel per la letteratura del 2022) nel suo testo La vergogna (L’Orma, traduzione di Lorenzo Flabbi). È il suo compito: entrare in quell’immagine più o meno nitida, riempirla di parole, affinché attraverso la scrittura diventi un messaggio, cominci ad avere un ruolo per tutti.

Ultima notte vagabonda, è così che la chiamo, la lezione da imparare, è quello che ripeto a me stessa. il risveglio è troppo pesante. Non scordare la vergogna. Dovrebbe starsene nel corpo, la vergogna. Ho come una voglia di diventare ragionevole, non spingere più la notte fino alle sue ultime frontiere, smettere di lasciarmi andare a chiunque. Mi divora il ridicolo. Mi intralcia. Mi impiglio.

Non scordare la vergogna, imparane le sembianze, sentine gli effetti; è la richiesta, la supplica, quasi, che la voce narrante di Vuoto d’aria rivolge a sé stessa. Il primo romanzo di Clémentine Haenel, edito da Alter Ego Edizioni nella traduzione di Valentina Maini, può essere pensato come un diario di tutte le occasioni di tragedia che pesano su un’esistenza; di tutti i “vuoti d’aria” eponimi con cui la gola della protagonista si serra quando le si rovesciano addosso i ricordi della notte.

Lei stessa descrive la forma della sua scrittura, l’espressione del ricordo che si fa urgente, con un linguaggio che allora si spezza attraverso paragrafi brevi, separati da spazi bianchi che rendono lo sforzo dei frammenti di memoria che a poco a poco ricoprono la pagina. La voce narrante si serve di un linguaggio elevato per riferire i più bassi istanti del suo esistere, impudica; il suo stesso corpo la spinge verso il basso – la testa pesante, gli occhi infossati, il senso di vertigine. Non può esserci per lei un equilibrio, un punto fisso delle sue oscillazioni fra la cima e l’abisso. Fa sempre notte quando le cose accadono, quando il corpo si spoglia e diventa oggetto di sopruso; quando lei vorrebbe rifiutarsi eppure si continua.

La notte, io mi apro. Mi svelo; mi spoglio. Possono rotolarmi sopra. Tutti, o quasi, hanno almeno una possibilità di passare sul mio corpo. Non mi rispetto: è questo che dicono. Mi scivola addosso. Non che non lo pensi, ma non riesco a fare altro. A quanto pare dovrei essere più selettiva, esigente, qualità che nessuno mi ha dato. Io: me ne frego, la notte ho bisogno che un corpo mi investa. A volte non lo voglio davvero, ma succede.

Nel romanzo si viene poi a conoscenza di X. Non occorre chiamarlo con un nome proprio, perché di X basta sapere, semplicemente, che è un uomo più grande di lei, sposato, e che ama violentemente. Non sempre la fa sentire a suo agio, eppure con lui si ricorda di respirare. Quando invece dovrà lasciare Parigi per trasferirsi dove nessuno la conosce, si ritroverà a soffocare, sospesa in nuovi vuoti d’aria.

Con lo stesso dubbio equilibrio che fa da scheletro a tutto il romanzo, è lì che cade ancora, che la vergogna la assale di nuovo. Il corpo, così come viene minuziosamente riportato, si adatta, manifesta la rinuncia. La pelle si screpola, le gambe provate dalla fatica dello stare in piedi, l’umore è regolato chimicamente. Anche la scrittura si adatta, si fa difficile, a tratti sconnessa; d’altronde «articolare non è semplice quando il dosaggio dei farmaci è elevato», mentre si ritrova sprofondata nel grande pigiama azzurro dell’ospedale psichiatrico, una volta tentato il suicidio. Il linguaggio ora si compone di parole scabrose, con la testa che rigetta in pensieri folli tutta la violenza di cui si era impregnata. La sua immaginazione scandisce con insistenza le cronache nere lette e rilette, si interroga spesso su quale sia il limite da oltrepassare, su quella perdita totale di sé che spinge a compiere un male del genere.

Non rivelerò se si aprirà uno spiraglio per la ricostituzione del sé, dopo i tanti tentativi mancati, o parzialmente riusciti, di autodistruzione. Posso sottolineare che in ogni momento il linguaggio spinge per trovare espressione, specialmente quando irrompe il ricordo di quelle notti che l’hanno consumata, quando la vergogna punge e serra la gola. Il suo profilo psicologico è sfaccettato: in parte, il rivedere certe scene è qualcosa di cui non può fare a meno, avvertire il senso di sollievo dell’esser viva ogni volta, e il dolore che, in fondo, le dà una sorta di piacere. Ma solo lo scrivere, stendere il ricordo e la sua vergogna sulla carta – riempire la scena di parole, come si diceva – è l’inizio del senso. L’unico, forse, che può essere dato a certi episodi spietati, aprendo in qualche modo un distacco tra il sé e ciò che è stato materializzato, esternato sulla pagina. Affinché gli eventi, il dolore, la vergogna, si sollevino dalla dimensione privata, e trovino un compito per tutti. Diventino accettabili.

Non ho svelato nulla, se non i nudi fatti. Quella scena, rappresa da tanti anni, voglio riuscire a smuoverla, a privarla della sacralità iconica che ha assunto dentro di me (attestata, ad esempio, dalla convinzione che sia stata lei a spingermi a scrivere, che ci sia lei alla base di tutti i miei libri). (Annie Ernaux, La vergogna).