William Somerset Maugham, “Il mago”
La Parigi di fine Ottocento e inizio Novecento vede la proliferazione di movimenti radicati nelle pratiche dell’occultismo. Jules Bois, uno dei testimoni più attenti alla diffusione del fenomeno, specie presso gli strati più altolocati della società, raccoglie in un suo libro significativamente intitolato Les petites religions de Paris (1894), una preziosa serie di testimonianze dirette circa teorie e applicazioni pratiche da parte dei circoli esoterici sorti nella capitale francese.
Si tratta di una vera e propria moda, che riceve un grande impulso dalla pubblicazione del romanzo maudit di Joris-Karl Huysmans, Là-bas, L’abisso (1891), dove troviamo quella che è probabilmente la più famosa descrizione letteraria di una messa nera; descrizione destinata ad essere un modello ineludibile per generazioni di satanisti. In quegli anni torna a vivere a Parigi William Somerset Maugham, allora quasi trentenne – studi medici alle spalle –, non ancora raggiunto dalla ricchezza e dal successo che gli arrideranno di lì a poco, a partire dalla messa in scena della commedia Lady Frederick (1907).
Qui, o per meglio dire nell’ambasciata britannica, dunque su suolo inglese, dove il padre lavorava come avvocato, era nato nel 1874, per trasferirsi in Inghilterra in casa dello zio, nominato suo tutore alla morte dei genitori. Alloggia dapprima in un alberghetto della rive gauche, poi in un appartamentino, che divide con il coetaneo e connazionale pittore Gerald Kelly, studi a Eton e Cambridge, uniti a grande entusiasmo e curiosità intellettuale.
E appunto nell’inverno del 1902 a Parigi, in un ristorante bohemien di boulevard Montparnasse, Le Chat Blanc, frequentato da artisti di varia nazionalità, Maugham incontra il celebre e discusso occultista Aleister Crowley, la cui opera, secondo una certa vulgata, ha influenzato persino uno dei capolavori dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967, tanto da essere presente sulla copertina dell’album. Figura eccentrica e inquietante come poche, noto per la sua capacità di manipolare e plagiare i suoi adepti, Crowley, noto come “l’uomo più cattivo del mondo” o “la Grande Bestia” (questi due dei suoi tanti soprannomi), desta subito nello scrittore inglese curiosità, ma non certo simpatia.
Mi è apparso subito antipatico, – scrive Maugham, in uno scritto del 1956, A fragment of autobiography – ma mi interessava e mi divertiva. Era un gran chiacchierone e parlava insolitamente bene. Nella prima giovinezza, mi è stato detto, era estremamente bello, ma quando l’ho conosciuto era ingrassato e i suoi capelli si stavano diradando. Aveva begli occhi e un modo, naturale o acquisito, non so, di focalizzarli in modo tale che, quando ti guardava, sembrava guardare dietro di te.
Per poi aggiungere: «Era un bugiardo e un incorreggibile vanaglorioso, ma la cosa strana era che aveva effettivamente fatto alcune delle cose di cui si vantava» (traduzione mia). Tra queste, ad esempio, il tentativo di scalare il K2, fallito a causa delle condizioni meteo sfavorevoli, dell’equipaggiamento inadeguato e dell’enorme e insostenibile sforzo fisico richiesto al gruppo. Pur non raggiungendo la vetta, la cordata capeggiata da Oscar Ekenstein – uno dei più celebri alpinisti di tutti i tempi, un grande innovatore in fatto di tecniche di scalata – arrivò a 6600 metri, una quota mai raggiunta prima.
Da sempre affascinato da figure bigger than life, molte delle quali conosciute direttamente nel corso di una vita movimentata e fitta di incontri importanti, Maugham elegge Crowley a modello del personaggio di Oliver Haddo, protagonista del suo unico romanzo horror, Il mago, The Magician, scritto nei primi sei mesi del 1907 e pubblicato nel 1908, ora proposto da Adelphi nell’ottima traduzione di Paola Faini in un’edizione che curiosamente esclude il ‘frammento autobiografico’ del 1956.
Come molti titoli della narrativa gotica, Il mago, ambientato tra Parigi e Londra, racconta il conflitto, tra scienza e magia, all’interno della cornice di una storia d’amore, seduzione e possesso, che vede coinvolti cinque ‘personaggi figure’, portatori e mediatori di istanze e questioni socio-culturali, quali il prometeismo da perseguire ad ogni costo. La ragione aridamente positivista. La scienza sensibile alle istanze del soprannaturale. La bellezza. E naturalmente l’amore.
Haddo agisce come un vampiro. È infatti un seduttore e ha bisognoso del sangue delle sue vittime per portare avanti i suoi esperimenti. Come il ‘vero’ Crowley conosciuto direttamente da Maugham, ha negli occhi il suo punto di forza:
Non erano grandi ma di un azzurro chiarissimo, e fissavano l’interlocutore in modo molto imbarazzante […] Davano l’impressione di attraversare il corpo con lo sguardo, riuscendo a vedere la parete al di là. Era qualcosa di innaturale. Un’altra stranezza era l’impossibilità di capire se fosse serio. C’era un’aria ironica in quello sguardo bizzarro, un sorriso sardonico sulle labbra, e non si sapeva come interpretare il suo sfrontato modo di esprimersi.
In particolare, Haddo, sulla scorta delle teorie di Paracelso, persegue la creazione degli homunculi, misteriosi esseri dall’aspetto orribile e demoniaco, conservati in vasi colmi di acqua, in cui a intervalli di tempo prestabiliti, viene versato del sangue, che scompare immediatamente e inspiegabilmente. Via di mezzo tra il barone Von Frankenstein e il dottor Moreau, Haddo desidera «essere come Dio». Per lui «la magia non è altro che l’arte di impiegare consapevolmente mezzi invisibili per produrre effetti visibili», mentre il mago è colui che dispone abilmente di armi come la «scienza studiata tanto pazientemente», la «sopportazione», la «forza», la «volontà» e «l’immaginazione».
Agli occhi di Arthur Burden, giovane e brillante medico chirurgo, nato in Oriente – una vita consacrata alla medicina, per una dichiarata mancanza di immaginazione, umorismo e altri interessi – Haddo è senza dubbio uno spregevole ciarlatano. Arthur è fidanzato con Margareth Dauncey («ogni millimetro in lei è bellezza», tiene a sottolineare). Della ragazza, dotata di una spiccata sensibilità per le arti, rimasta orfana in tenera età, il medico, molto più giovane di lei (aveva dieci anni quando l’ha conosciuta, diciassette quando le ha fatto una proposta di matrimonio), è tutore ed esecutore testamentario: la sposerà dopo un soggiorno ‘formativo’ di due anni a Parigi, dove avrà come accompagnatrice e istitutrice la trentenne Susie Boyd, come da convenzione segretamente innamorata di Arthur. Completa il quartetto dei ‘buoni’, il mentore di Arthur, l’anziano dottor Porhoët, medico e studioso curioso, la cui insoddisfazione nei confronti delle discipline tradizionali, lo ha spinto verso i lidi dell’esoterismo, tanto da pubblicare un volumetto sugli alchimisti, frutto di lunghe ricerche alla Bibliothèque de l’Arsenal a Parigi, punto di riferimento tra Otto e Novecento degli occultisti di tutto il mondo, dato il notevole e importantissimo corpus di testi esoterici, ivi conservato.
«Un tempo – confida a un certo punto ad Arthur, che ha una fede incrollabile nella scienza – leggevo molti testi di filosofia e scienze, così ho imparato che non esiste nulla di certo. Alcuni, seguendo la scienza, sono impressionati dalla dignità dell’uomo, mentre io diventavo sempre più consapevole della sua insignificanza». Margareth prova all’inizio per Haddo un forte disprezzo, poi ne è morbosamente e insanamente attratta, «come se nel suo cuore fosse stata seminata una pianta infestante, che insinuava i lunghi tentacoli velenosi in ogni arteria»: fugge con lui in Inghilterra, dove lo sposa. Ad Arthur, coadiuvato dai suoi amici, non resta che affrontare il Fratello dell’ombra fino allo scontro finale.
A dispetto di un plot tutto sommato convenzionale, sia pure gestito con abilità, spiccano nel Mago pagine dotate di una forte carica visionaria. Pagine bellissime che danno grande forza al romanzo. Si pensi a quelle in cui Haddo dinanzi a una riproduzione della Gioconda, riprende con enfasi le osservazioni di Walter Pater, volte a paragonare Mona Lisa a un vampiro, ma anche a Leda madre di Elena di Troia e sant’Anna madre di Maria. O ai passaggi di gusto pateriano, pregni come sono di estetismo decadente, in cui il Mago evoca dai recessi dei quadri, considerati organi vivi come gli homunculi, l’emergere delle pulsioni e delle ansie febbrili e inappagate degli artisti che li hanno creati:
Oliver Haddo riuscì con un solo tocco a conferire ai dipinti un nuovo esoterico significato… Quei quadri erano ricolmi di uno strano senso del peccato, e la mente che li contemplava era gravata dalla decadenza di Roma e dal vizio sfrenato del Rinascimento, torturata dall’introspezione dei tempi moderni.
E ancora pensiamo alla catabasi di Margareth, trasportata in un luogo lontano e posta di fronte a una folla di ombre, destinate a sparire. Lo sguardo di lei si concentra su un grande albero spezzato, che a un tratto cambia nella ciclopica figura di Pan: prima osceno e ferino, poi trasmutato in un giovane, titanico «più bello dell’Adamo di Michelangelo, svegliato alla vita dalla voce dell’Onnipotente; e come lui, appena creato, aveva l’incantevole languore di chi senta ancora nelle membra, la pioggia lieve sulla soffice terra bruna».
Dopo aver letto Il mago, Crowley grida allo scandalo, accusando Maugham di plagio. In un articolo pubblicato su «Vanity Fair» sempre del 1908, Come scrivere un romanzo! (dopo W.S. Maugham), firmato provocatoriamente Oliver Haddo, l’occultista sostiene che il futuro autore del Filo del rasoio, della Diva Julia e di altri capolavori, abbia preso spunto e in alcuni casi palesemente saccheggiato, saggi e romanzi, tra i quali La Vita di Paracelso di Franz Hartmann, la Kabbalah Denundata di Christian Knorr von Rosenroth, L’isola del dottor Moreau di H. G. Welles.
Testi di cui Maugham in realtà si era servito per ricostruire al meglio un mondo, quello esoterico, di cui non sapeva quasi nulla. Anni dopo, lo stesso Crowley nella sua autobiografia finisce per apprezzare il romanzo di Maugham, valutandolo tutt’altro che denigratorio.
Il mago – scrive Crowley – è stato nei fatti un riconoscimento del mio genio quale mai avrei sognato di ispirare. Mi ha mostrato quanto sublimi fossero le mie ambizioni e rassicurato su un punto che qualche volta mi preoccupava – se cioè il mio lavoro valesse la pena di fronte al mondo.
di Vito Santoro